Domenica 33a – 17 novembre 2019
CRISIS. Don Augusto Fontana

Nel “Credo” diciamo: “ di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti”. Chiamare Dio con il nome di giudice potrebbe ingannarci perché gli attribuiamo le caratteristiche dei giudici della nostra società. Di fatto la nostra parola italiana «giudizio» deriva dalla parola greca «crisis» che significa «valutazione, scelta». Dio allora é una persona, un evento che ci mette in crisis cioè non ci lascia nell’indifferenza, ma ci conduce a prendere posizione, a esprimere il nostro parere, a schierarci, a prendere parte. Di solito diamo valore negativo alla crisi, e quando vogliamo comunicare il nostro malessere diciamo: «Sono in crisi!»; ma esistono crisi e destabilizzazioni molto positive e desiderabili, come per esempio le fasi di crescita e di progresso. 

Preghiamo.
O Dio, principio e fine di tutte le cose, che raduni tutta l’umanità nel tempio vivo del tuo Figlio, fa’ che, attraverso le vicende, liete e tristi, di questo mondo, teniamo fissa la speranza del tuo regno, certi che nella nostra pazienza possederemo la vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Dal libro del profeta Malachìa 3,19-20
Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li brucerà – dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice né germoglio. Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.
Salmo 97   Il Signore giudicherà il mondo con giustizia.
Cantate inni al Signore con la cetra, con la cetra e al suono di strumenti a corde;

con le trombe e al suono del corno acclamate davanti al re, il Signore.
Risuoni il mare e quanto racchiude, il mondo e i suoi abitanti.
I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne davanti al Signore che viene a giudicare la terra.
Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 3,7-12
Fratelli, sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.
Dal Vangelo secondo Luca 21,5-19
In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

 CRISIS. Don Augusto Fontana
Nel salmo 98 abbiamo proclamato: «il Signore giudicherà i popoli con giustizia». Nel “Credo” diciamo: “ di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti”. Chiamare Dio con il nome di giudice potrebbe ingannarci perché gli attribuiamo le caratteristiche dei giudici della nostra società. Di fatto la nostra parola italiana «giudizio» deriva dalla parola greca «crisis» che significa «valutazione, scelta». Dio allora é una persona, un evento che ci mette in crisis cioè non ci lascia nell’indifferenza, ma ci conduce a prendere posizione, a esprimere il nostro parere, a schierarci, a prendere parte. Di solito diamo valore negativo alla crisi, e quando vogliamo comunicare il nostro malessere diciamo: «Sono in crisi!»; ma esistono crisi e destabilizzazioni molto positive e desiderabili, come per esempio le fasi di crescita e di progresso. Dire che Dio é giudice, che è la nostra crisi, potrebbe allora significare che noi dobbiamo sentirci responsabili davanti a lui. La vita é un’amministrazione di ciò che ci é stato affidato e quindi é responsabilità.
L’immagine di “Dio giudice” non ci garba. Il biblista André Wénin, in un suo Corso su Genesi 1-11 affronta il problema: «Davvero un giudice è una figura così negativa? Di per sé un giudice è una figura positiva, naturalmente se fa bene il suo mestiere. Ma di per sé un giudice non è una persona cattiva. E’ una persona temibile da parte di chi si sente colpevole. Ma per la vittima…meno male che ci sono i giudici… Un giudice, di per sé, è una figura positiva anche per il colpevole. Penso che un giudice abbia un doppio ruolo. Primo. Stabilire la verità dei fatti, chi è colpevole e chi innocente, chi ha fatto una cosa e chi l’ha subita; e se chi lo ha fatto ha delle circostanze attenuanti. E se chi si crede innocente ha provocato. Secondo. Deve rendere o fare giustizia agli innocenti e rimediare il torto subìto con una compensazione. Ma anche rendere giustizia al colpevole dandogli una pena adeguata per fargli prendere coscienza del danno che ha causato alla vittima e alla società. Rende quindi un servizio anche al colpevole».

Nelle ultime 3 domeniche del ciclo liturgico, prima dell’avvento, la liturgia ha accentuato l’attenzione verso la direzione del nostro cammino, il “giorno del Signore”. Nella religiosità popolare degli ebrei “il giorno del Signore” significava

  • giorno di liberazione da ogni minaccia incombente
  • giorno di realizzazione delle sue promesse e quindi un giorno dolce e invocato per l’oggi.
  • giorno del rendiconto anche per la comunità di Dio, come dicono i profeti dall’8° secolo a.C., e quindi un giorno severo di scadenze e di responsabilità tanto da desiderarne il rinvio o di volerne conoscere la data per difenderci o non farci trovare impreparati.

Noi usiamo il termine “giorno del Signore” per indicare la Pasqua, la domenica.
La prima domanda che mi viene spontanea é chiedermi se quando mi alzo alla mattina della domenica ho la percezione di trovarmi di fronte a un giorno di liberazione da ogni minaccia incombente, giorno di realizzazione delle promesse del Signore e di responsabilità davanti a Lui.
Giorno, quindi dolce e attraente, ma anche giorno severo e preoccupante.
Proviamo rileggere le letture sante di oggi per ritrovare questi spunti, facendoci accompagnare dalla preghiera che inaugura l’assemblea liturgica: «O Dio, principio e fine di tutte le cose, che raduni tutta l’umanità nel tempio vivo del tuo figlio, fa’ che attraverso le vicende liete e tristi di questo mondo, teniamo fissa la speranza del tuo regno, certi che nella nostra pazienza possederemo la vita».
Il profeta Malachia scrive il suo libretto dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia, in un tempo in cui le speranze e la gioia iniziale si erano spente di fronte al risorgere di tutte le miserie, le truffe, le ingiustizie di prima. Gli uomini giusti e onesti, i fedeli di Dio, si chiedono se valga la pena continuare e se il Signore interverrà mai un giorno a rendere giustizia. Non posso cavarmela puntando il dito solo su determinate persone. La superbia e l’autosufficienza hanno radice e germoglio anche dentro di me. In me c’é un mondo decrepito e inaccettabile agli occhi di Dio sul quale anch’io desidero la fine. E non posso essere sicuro di essere catalogato tra coloro che onorano il suo Nome. Stando a certe affermazioni del Vangelo («Non chi dice Signore, Signore…») non posso escludere di essere anch’io tra coloro che hanno continuamente il Nome di Dio in bocca. Il Nome di Dio infatti é più affidato alle mani che alla bocca («…ma chi fa la volontà del Padre mio…»).
La differenza tra gli idoli e Dio é questa: Dio abita il nostro tempo e non assiste impassibile, come gli idoli, alle vicende del mondo. Jahweh porta a termine la storia. Il profeta assicura: «Tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia che brucia…per voi invece che rendete culto a Dio verrà come un calore benefico». Si tratta, come dice Gesù nel Vangelo, di paziente perseveranza. Di resilienza[1]. Una vigilanza attiva, direbbe Paolo nel testo liturgico di oggi, ai suoi cristiani di Tessalonica che avevano tirato i remi in barca in una spiritualità disinteressata del mondo e a cui ribatte: «Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace». E si vanta di essere prete-operaio per darne l’esempio: «Noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi». La storia, la politica, l’amore, il lavoro non perdono consistenza davanti alla «attesa del Suo Ritorno». L’illusione e la delusione, lo sbadiglio e l’abbaglio sono atteggiamenti non consoni alla vigilanza di fronte al giorno del Signore. Scrive Daniele Garota[2]: “Léon Bloy ri­porta una riflessione di Ernest Hello, nella quale un uomo divorato dalla consapevolezza di essere «sulla strada dell’inferno», con sentimenti di noia e con l’età che avanza verso la morte, dice: «Tuttavia se Dio mi proponesse di lasciare per un istante queste cose noiose, monotone, bugiarde, mo­ribonde e mortali, che mi portano alla disperazione presente e a quella eterna, per cambiarle con la vita, con la gioia, con la beatitudine, mi rifiuterei, non lo ascolterei neppure! Me n’andrei a un divertimento noioso, dicendogli: “Vattene! Vattene, padrone del­l’estasi e proprietario della gioia; vattene, sole che ti levi nella tua raggiera di porpora e d’oro! Vattene, maestà. Vattene, splendore! Vattene, tu che hai suda­to sangue nel Giardino degli Olivi! Vattene, tu che sei trasfigurato sul Tabor! Vattene, io vado al caffè dove mi annoio”.
“E perché ci andate?”.
“Perché ho preso l’abitudine”».

Il caffè, la distrazione, la noia: ma c’è forse alla fi­ne un morbo più devastante di questo nelle nostre so­cietà sazie e goderecce? «Il caffè è la casa aperta, al livello della strada – dice Lévinas[3]luogo della so­cialità facile, senza responsabilità reciproca. Si entra senza necessità. Ci si siede senza stanchezza, si beve senza sete … perché si può andare al caffè a rilas­sarsi e così si sopportano gli orrori e le ingiustizie di un mondo senz’anima … Luogo di dimenticanza, dell’o­blio dell’altro: ecco il caffè ».

Non sarà subito la fine…Prima:

  • Non seguiteli…Non lasciatevi turbare
  • Guardate di non lasciarvi ingannare.
  • Questo vi darà occasione di testimonianza
  • Con la vostra perseveranza salverete le vostre vite.

Chiudo citando un testo del rabbino chassidico di Berditschev (XVIII secolo) divenuto preghiera di alcuni ebrei ad Auschwitz:
Dovunque io vada, Tu!
Dovunque io sosti, Tu!
Solo Tu,
ancora Tu,
sempre Tu,
Dio Tu!
Cielo, Tu.
Tu, Terra, Tu!
Dovunque mi giri e dovunque miri, Tu!
Solo Tu!
sempre Tu!
Se mi va bene, Tu!
Se sono in pena, Tu!
Solo Tu, ancora Tu!
Sempre Tu!
Dio Tu!


[1] dal latino: resilire rimbalzare, saltare indietro. Si paragona spesso al comportamento dell’acqua che si adatta ad ogni forma o recipiente, può ricordare la duttilità, la malleabilità.
[2] Daniele Garota, Il coltello di Abramo (ed. Paoline)
[3] E. Lévinas, Dal sacro al santo, Città Nuova, Roma 1985, p. 49

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