FAMIGLIA DI NAZARET
Don Angelo Casati

Famiglia di Nazaret. Don Angelo Casati

Si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret”. Finiscono qui le notizie di Matteo sulla famiglia di Gesù. Poi nel vangelo c’è un salto di più di trent’anni. E Gesù riappare nei giorno in cui il deserto si infiamma per la voce del Battista. Che fa appello alla conversione: ”Allora Gesù” è scritto “dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui”.
Perchè questo buco di silenzio? A me viene fatto di pensare che non ci fosse, perdonate l’azzardo, che non ci fosse nulla da raccontare di quei trent’anni, nulla se non cose comuni, immagini di case comuni: la stuoia, la lampada, la madia, il forno nell’angolo, la legna da ardere. Immagini di lavori comuni: impastare la farina, attingere al pozzo lontano, radunare assi da lavorare, insegnare a quel figlio il lavoro ma ancor più la scienza della vita, pregare e ringraziare per i giorni di immediata trasparenza reciproca e imbattersi d’improvviso in giornate in cui è arduo capirsi, destarsi ogni mattina, uscire per andare a bottega o per bisogno di acqua dell’anfora, ritornare, riposare nella notte, riprendere al mattino. E lui, quel figlio di Dio e figlio dell’uomo, a dirci che aveva inizio così la salvezza del mondo, lui a dirci che iniziava di lì il suo contributo per il riscatto della terra. Tra quelle cose e non al di là di quelle cose. Già da quel momento e non solo dopo.
Impressiona l’assenza dello straordinario, la sfida del silenzio delle cose comuni, la forma della piccolezza, la vita nascosta. Tutto sembra appartenere a una storia apparentemente irrilevante. A rischio, secondo i criteri comuni, di ovvietà o peggio ancora di banalità.
Che un figlio dell’Altissimo abbia consumato con Giuseppe e Maria mesi e stagioni e anni, decine d’anni, tra queste cose non può che aprire uno sguardo, uno sguardo nuovo sulla vita. E’ il riscatto del piccolo, dell’ordinario, del comune, fuori dalle nostre manie e dalle nostre ossessioni di grandezza, che finiscono con lo scarto della più parte della nostra vita. Qui sta il riscatto della vita nella sua totalità. Insegnamento prezioso. Preziosa è tutta la vita. Anche quella che non esce dalla soglia del nascondimento. Forse dovremmo in qualche misura innamorarci di quel vuoto, nel racconto, di trent’anni, che fa senza volerlo elogio della vita nascosta di Nazaret.
Mi succede a volte di sentire qualcuno confessare, quasi con vergogna, che non fa nulla di buono nella vita, solo perché non ha tempo per qualcosa che vada al di là delle cose normali della vita. Sconsolato a dire “Ma io nella mia vita non faccio niente di buono!”. E mi capita di dirgli: “Ma, perdona, nella vita che cosa fai dalla mattina alla sera? Forse che non fai niente? Forse che le cose che fece quel Figlio di Dio per trent’anni non contavano niente agli occhi del Padre? Mettici il tuo amore, la tua passione, è il tuo modo di nutrire la vita e la terra.
Vorrei venire ad un altro pensiero. Matteo oggi alzava un velo sull’infanzia di Gesù e ci raccontava del ritorno della famiglia di Nazaret dall’Egitto, dove era stata costretta a rifugiarsi per sfuggire ai disegni di morte di Erode. Una costante questa, purtroppo, dei poteri assoluti, di ogni assolutismo. Non è forse vero che in questi giorni siamo riandati con la memoria alle immagini agghiaccianti dello sterminio?
Con il racconto della fuga e il ritorno dall’Egitto Matteo vuole, fin dall’inizio, inserire la vicenda di Gesù in una vicenda più grande, quella del suo popolo, a sua volta profugo in Egitto e liberato dall’Egitto.
Matteo cita le parole del profeta Osea che erano riferite all’intero Israele: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio”. Quasi a dire una comunanza di destino. Gesù, una cosa sola con il suo popolo, quasi ne ripercorresse le orme.
Sentirsi dunque solidali con le vicende del proprio popolo! Un modo di essere che dovrebbe farci pensare. Non è che forse stiamo perdendo questo senso di appartenenza ad un popolo, ad una umanità, a una terra? Non è che stiamo diventando molto più individualisti? A volte immaginiamo e inseguiamo una grandezza che sta nel distinguerci: ci riteniamo grandi perché ci stacchiamo dagli altri, o perché stacchiamo gli altri.
Gesù ripercorrendo le vicende del suo popolo ci insegna che la vera grandezza è “appartenere”, è “essere solidali”, assumere gli stessi destini. E’ un criterio che dovrebbe ispirarci sempre, soprattutto quando siamo chiamati a scelte in cui è in gioco non solo la nostra sorte ma anche quella degli altri, di un popolo, di una nazione. Quale il criterio che ci conduce?
Ritorniamo al Vangelo. Con il suo racconto Matteo vuole anche dire che le mire dei potenti vanno in frantumi. Erode viene giocato da un uomo giusto ma inerme, Giuseppe, perché c’è qualcuno che veglia anche nella notte, quando noi dormiamo. E’ scritto nel salmo 121: “Non si addormenterà, non prenderà sonno /il custode di Israele. /Il Signore veglierà su di te /quando esci e quando entri /da ora e per sempre”. Nell’uscita dall’Egitto Israele, ma anche la famiglia di Nazaret hanno esperimentato un Dio custode, un Dio che non si addormenta.
Ma permettetemi un’ultima brevissima notazione. Dire che Dio è custode, che Dio veglia, che Dio provvede non significa dire che tocca solo a Dio, che possiamo stare passivi perché tanto c’è lui a vegliare. Il racconto della fuga in Egitto e del ritorno dall’Egitto ci racconta anche la parte di Giuseppe, la parte dell’uomo, della donna, ciò che spetta a noi umani.
Innanzitutto ascoltare, ascoltare nella notte. Ascoltare, lontano dal frastuono, nel silenzio, le voci dall’alto. E dunque lasciarci condurre da parole alte, quelle di Dio e non da meschine visioni umane.
E c’è una seconda cosa da aggiungere: Dio ti dà con la sua parola la direzione, ma poi tocca a te, come a Giuseppe, studiare le strade, evitare le insidie. Tocca a te prenderti cura della donna, del bambino.
Diventa anche tu un custode, come lo è Dio per te.

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