Fare sociale: un luogo teologico e un luogo spirituale.
https://www.settimananews.it/teologia/castellammare-di-stabia-un-luogo-teologico/
Salvatore Abagnale
A partire da una provocazione teologica ho scritto queste righe sollecitato dall’articolo di Giuseppe Guglielmi apparso su SettimanaNews, in particolare dalla sua sottolineatura del “fare sociale”[1]. Le sue parole mi hanno provocato in profondità, ed hanno suscitato il desiderio sincero di continuare la riflessione partendo dalla mia esperienza concreta di parroco.
Da anni vivo e lavoro a Castellammare di Stabia, (in uno dei tanti comuni della città metropolitana di Napoli), in un quartiere sociale segnato da marginalità profonda (Acqua della Madonna). Ogni giorno mi muovo tra case in degrado, ragazzi senza prospettiva, famiglie appesantite da ferite che si ereditano da generazioni.
È un territorio che non ha bisogno di spiegazioni, ma di presenza. Che non ti chiede se hai le risposte giuste, ma se ci sei davvero. Qui ho imparato che la teologia non può essere solo scritta o pensata: deve essere abitata[2]. Ho imparato che il “fare sociale” non è un’attività collaterale della pastorale, ma un luogo teologico in cui Dio si rivela nel volto dell’altro, nella lotta quotidiana per la giustizia, nel grido silenzioso di chi resiste.
Non scrivo da esperto, ma da testimone. E se queste riflessioni hanno un valore, non lo devono alla loro coerenza teorica, ma alle notti trascorse accanto ai genitori in lacrime, ai ragazzi che cercano una via, ai collaboratori che non si arrendono. Perché la teologia, se vuole toccare davvero la vita, deve prima lasciarsi toccare[3].
Fare, non applicare
In un tempo che ci abitua alla frammentazione e alla velocità, può sembrare paradossale richiamare l’urgenza del fare come dimensione generativa del pensiero teologico. Ma è proprio in questa apparente contraddizione che si nasconde una delle sfide decisive per la teologia contemporanea: non accontentarsi di applicare dottrine al reale, ma abitare il reale come luogo teologico, riconoscendo nel fare – quando è radicato nell’ascolto e nella responsabilità – una sorgente ermeneutica, non una semplice conseguenza pratica. La teologia – se non vuole diventare esercizio museale o ripetizione autoreferenziale – è chiamata a riscoprire il fare sociale non come ambito secondario, ma come il suo ambiente sorgivo. Non si tratta di una teologia ridotta a sociologia religiosa. Si tratta di riconoscere che il reale interroga, che l’umano in cammino – con le sue ferite e i suoi desideri – è una grammatica vivente da cui lasciarsi convertire. Il teologo non è colui che parla di Dio in astratto, ma colui che si lascia ferire dal reale alla luce della Rivelazione. La Scrittura stessa non è un manuale di risposte, ma un racconto di vite in cammino, di scelte incarnate, di storie attraversate da Dio. È nel fare dei profeti, nel loro gesto che rompe l’indifferenza, che la Parola prende corpo. È nel fare di Gesù – che tocca i lebbrosi, spezza il pane, si lascia trafiggere – che la teologia si rivela nella sua forma più vera: non una teoria su Dio, ma l’esperienza di Dio che attraversa la storia.Per questo, parlare di fare significa riconoscere che ogni gesto di giustizia, ogni scelta di prossimità, ogni impegno per la pace o per l’ambiente non è un “dopo” della teologia e della pastorale, ma è essa stessa teologia e missione pastorale, nella misura in cui manifesta – anche implicitamente – la tensione al Regno. L’agire umano non è un campo da colonizzare con idee teologiche, ma un luogo in cui Dio già opera, già parla, già si rivela. Il fare non è l’applicazione della teologia, ma il suo grembo. E allora il pensiero teologico è chiamato a riformularsi: non come sistema chiuso, ma come ascolto sapienziale della realtà, come discernimento spirituale delle tensioni della storia. Dove c’è lotta per la dignità, c’è una domanda di Dio. Dove c’è povertà, grido, emarginazione, c’è già un terreno teologico. Dove c’è speranza – anche fragile – c’è già teologia. L’immagine biblica della creazione ci aiuta: Dio non ha applicato un progetto, ha fatto, ha plasmato, ha visto che era cosa buona. Il fare, per Dio, è atto generativo, non esecutivo. Allo stesso modo, il fare teologico non è una traduzione in pratica di concetti, ma un plasmarsi insieme al reale sotto l’azione dello Spirito.Forse oggi, più che mai, la teologia è chiamata a camminare. A essere pellegrina tra le periferie del mondo, in silenzio, in ascolto, con le mani immerse nella carne delle contraddizioni. È qui che il pensiero si fa profezia, che la parola si fa gesto, che il fare diventa preghiera. Non si tratta di scegliere tra teoria e prassi, ma di riconoscere che, nel Regno, la verità è sempre in azione[4].
Il grembo della teologia
Le intuizioni più vere non nascono nei laboratori della sistematizzazione, ma nel crogiuolo della vita. Non è nel tempo della sicurezza che la teologia genera parole nuove, ma nella tensione vissuta, nel conflitto che lacera e interroga. È lì – tra giustizia e ingiustizia, tra cura e abbandono, tra dignità e sfruttamento – che la domanda su Dio si fa radicale, necessaria, autenticamente umana[5]. La teologia non nasce dopo. Nasce dentro. Dentro i margini, dentro le ferite, dentro il grido. Il fare sociale non è il “dopo” della riflessione teologica, non è l’appendice pastorale di una verità già decisa altrove. È il suo grembo. È il luogo dove lo Spirito plasma, disordina, feconda. C’è una teologia e una progettazione pastorale che si scrive nei trattati, e una teologia e una progettazione pastorale che si scrive nella carne, nelle strade, nei cantieri educativi, nei centri di accoglienza, nei quartieri feriti. Lì dove le mani si sporcano, il cuore si spezza e lo sguardo si alza. È lì che la Chiesa si fa carne, che incontra la storia e la abita non come spettatrice, ma come levatrice di speranza. Il fare sociale – l’esperienza del volontariato, dell’impresa etica, della lotta per i diritti, dell’educazione nei contesti fragili – è già luogo teologico, perché è lì che il Vangelo prende corpo. Non è un ambito parallelo al pensiero cristiano, è la sua carne. È il laboratorio in cui la Parola si fa gesto, in cui l’annuncio si fa silenzio, in cui la fede si misura con il reale. Ma c’è di più: il fare sociale è anche luogo spirituale. È scuola di kenosi, perché è lì che si apprende la logica dell’abbassamento di Cristo[6]. Non c’è teoria che possa sostituire l’esperienza concreta del mettersi a servizio, dell’entrare nei luoghi dove l’umano è più nudo. La croce non è una dottrina: è una postura. E solo dentro il cammino della dedizione, della prossimità, della solidarietà, se ne comprende il peso e la luce. Il grembo della teologia, allora, non è un’aula, ma una soglia. La soglia tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. La soglia tra l’uomo e Dio. Una soglia abitata da chi si ostina a credere che il bene sia possibile, e che ogni gesto che lo anticipa – per quanto piccolo – è già profezia del Regno. Non si tratta di portare Dio nel sociale. Si tratta di riconoscerlo già lì. Nascosto, vulnerabile, in attesa. La teologia, se vuole essere fedele alla sua origine pasquale, deve nascere da questo grembo. Deve lasciarsi generare da questo travaglio.
Contaminazione generativa
Se vogliamo generare una teologia e un’azione pastorale capace di futuro, non possiamo proteggerla dietro i vetri blindati dell’accademia o dentro le mura tranquille delle sagrestie. È tempo di lasciarla contaminare. Non nel senso di corromperla, ma di fecondarla, di farle perdere l’innocenza astratta per farle guadagnare la verità dell’incontro. Una contaminazione generativa, che nasce dal contatto con il fare popolare, con l’agire incarnato, con le pratiche di resistenza quotidiana al male e alla rassegnazione. È lì che la teologia si fa adulta: quando si lascia attraversare dalla complessità senza rinunciare alla speranza, quando accoglie le contraddizioni del mondo come luogo di rivelazione, e non come inciampo da eludere. Non basta “applicare” la teologia alla realtà: occorre lasciarsi provocare da essa, lasciarla trasformare dal dolore che incontra, dai volti che ascolta, dai processi che accompagna, dalla cultura contemporanea che può disorientare le nostre presunte certezze[7]. Questa operazione non è solo intellettuale. È spirituale ed ecclesiale. Richiede una conversione. Chiede alla Chiesa – e ai suoi pensatori – di traslocare: di uscire dalle proprie stanze ordinate per abitare le tensioni della storia. Di imparare un’altra grammatica, quella che nasce dal basso, dall’esperienza, dall’incrocio tra vite vulnerabili e desideri inesauditi. Le periferie non sono più – e forse non lo sono mai state – semplici destinatari della missione. Sono fonti di senso. Sono il luogo dove la fede si misura, dove la speranza si fa carne, dove l’amore si verifica. La teologia ha bisogno di camminare. Di farsi pellegrina. Di lasciarsi formare dalla relazione, dall’ascolto, dal discernimento comunitario. Di accettare che la verità non si impone dall’alto, ma si scopre passo dopo passo, insieme, nella condivisione di uno stesso terreno, spesso accidentato, ma sempre gremito di possibilità[8]. In questo senso, il fare sociale non è solo oggetto di riflessione teologica: è suo interlocutore, è sua sorgente. Dove ci sono pratiche di giustizia, di inclusione, di promozione umana, là sta già parlando Dio. La teologia deve imparare a riconoscere questi luoghi, non solo per illuminarli, ma per lasciarsi illuminare. Non si tratta di sostituire il logos con un semplice pathos, né di ridurre la fede a prassi. Si tratta di tessere un pensiero capace di verità, dunque rigoroso e fatto di studio serio, perché radicato nella vita. Un pensiero che non ha paura di sporcarsi, che non teme l’ambivalenza della realtà, che sa cogliere nella polvere delle strade il soffio dello Spirito. Solo così la teologia potrà essere ancora generativa: quando accetterà di contaminarsi con ciò che pulsa, ferisce e trasforma. Quando non si preoccuperà di “difendere” la fede, ma di lasciarla nascere di nuovo, ogni giorno, dentro la carne del mondo.
Un nuovo immaginario
Non possiamo più accontentarci di una teologia e di una progettazione pastorale che osservano, che analizzano, che commentano dall’alto. Non basta più interrogarsi su ciò che accade: è necessario “accadere con”. Essere dentro la storia, lasciarsi inquietare, spostare, convertire da essa. Una teologia che si accontenta del commento, così come una pastorale di conservazione, rischiano di diventare sterile; una teologia e una pastorale che si immergono nei vissuti reali diventano profezia[9]. È tempo di immaginare altro. Di dare forma a una teologia che non sia solo scritta nei libri, ma scolpita nelle vite. Una teologia che prende parola partendo dal silenzio di chi non ha voce. Che si lascia abitare dalla precarietà, dalle crisi educative, dalla solitudine urbana, dall’urlo muto dei territori feriti, come quelli della Terra dei Fuochi. Lì, proprio lì, si ascolta lo Spirito. Non nei santuari ovattati, ma tra le rovine abitate, nei luoghi dove si lotta per un futuro possibile. È nei cortili delle scuole, nelle carceri, nelle cooperative che rinascono dalle mafie, nelle periferie culturali e affettive delle nostre città, nelle molteplici marginalità che Dio continua a scrivere le sue parabole. È lì che la rivelazione si fa presente. Ed è lì che la teologia deve stare. Per questo serve un nuovo immaginario. Non quello del potere, della dottrina come arma, della verità come possesso. Ma quello dell’artigianato spirituale: una teologia vissuta, comunitaria, incarnata. Una teologia che nasce dal popolo, che cresce nel dialogo, che si affina nella concretezza del fare. Che non si limita a “interpretare” le esperienze, ma le assume come luogo generativo di pensiero. Come grembo teologico. Solo così il “fare sociale” potrà smettere di essere l’appendice pastorale dei nostri documenti – l’ultimo capitolo di una teologia già decisa – e tornare a essere l’inizio di ogni discorso su Dio e sulla Chiesa. Perché dove si cura, si accoglie, si educa, si lotta, si costruisce giustizia… lì il Verbo continua a farsi carne. È questa l’urgenza: generare una teologia che accade. Che non si limita a spiegare, ma si compromette. Che non si rifugia nel già detto, ma osa parole nuove. Che non teme la contaminazione con il reale, perché sa che lo Spirito ha scelto proprio il reale come suo luogo di dimora. Solo così potremo sognare una Chiesa all’altezza del Vangelo. E una teologia all’altezza del mondo che cambia.
[1] G. Guglielmi, Sulla teologia rapida /5, in SettimanaNews, 4 maggio 2025.
[2] Papa Francesco, Evangelii Gaudium, n. 24.
[3] Tonino Bello, Alla finestra la speranza, Molfetta 1997. Nel suo stile profetico e quotidiano, don Tonino Bello amava dire che «la teologia deve avere i calli alle ginocchia e le mani sporche di pane». È un’immagine potentissima, che ci restituisce l’idea di una teologia che nasce dalla preghiera e dal servizio, dalla contemplazione e dall’impasto della realtà. Nel contesto del “fare sociale”, questa espressione ci spinge a uscire dalla dicotomia sterile tra azione e pensiero, spiritualità e impegno, Chiesa e mondo. Don Tonino ci mostra che la santità e la riflessione possono – e devono – intrecciarsi con la fatica del vivere e con l’urgenza dell’umanità. Una teologia che si inginocchia e serve, che si lascia ferire e nutre, è una teologia che profuma di Vangelo e ha qualcosa da dire anche al mondo che soffre.
[4] Congregazione per l’Educazione Cattolica, Veritatis gaudium, n. 4c.
[5] J.B. Metz, La fede nella storia e nella società, Brescia 1977.
[6] Fil 2,5-11.
[7] Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 97.
[8] C. Theobald, Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità, Bologna 2000. Theobald, in questo testo fondamentale, propone una visione del cristianesimo non come sistema dottrinale da difendere, ma come stile di vita da incarnare, dentro la storia concreta degli uomini e delle donne del nostro tempo. Lo “stile” non è estetica o optional, ma il modo stesso in cui il Vangelo si rende credibile nel mondo. Theobald ci aiuta a comprendere che non basta “fare qualcosa di buono” per i poveri o i fragili, ma che è necessario assumere un’intera postura cristiana fatta di prossimità, umiltà, dialogo e ascolto. Il fare, in questa prospettiva, non precede né segue il pensiero, ma lo accompagna, lo plasma, lo rivela. La teologia, allora, si fa stile: cioè forma di vita, non solo forma di linguaggio.
[9] Isaia 58,6-11.