Donare: nella vita non conta altro.
Padre Ermes Ronchi (Avvenire 11 Maggio 2003)
Io sono il pastore: il titolo più disarmante e disarmato che Gesù dà a se stesso. Eppure pieno di coraggio, contro i lupi e per la croce. Io sono il pastore bello, aggiunge il testo greco. E noi capiamo che la bellezza del pastore è il fascino che hanno la sua bontà e il suo coraggio. Capiamo che la bellezza è attrazione, Dio che crea comunione. Con che cosa ci avvince il pastore bello, come ci fa suoi? Con un verbo ripetuto cinque volte: io offro la mia vita; la mia vita per la tua. E non so domandare migliore avventura. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio, il comando che fa bella la vita: il dono. La felicità di questa vita ha a che fare col dono e non può mai essere solitaria. Il pastore bello e coraggioso ha un movente, non semplicemente un ordine da eseguire. Se cerco ciò che lo muove, mi imbatto subito nell’immagine opposta del mercenario che vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore. A Cristo invece importano le pecore, tutte, l’una e le novantanove. L’uomo interessa, l’uomo è importante. Anzi Cristo considera ogni uomo più importante di se stesso, per questo dà la sua vita. «Signore, non ti importa che moriamo?» gridano gli apostoli spaventati in una notte di tempesta. E il Signore risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante per me. Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo, ma voi valete più di molti passeri. Mi importano i gigli del campo, ma tu sei molto di più. Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che porti in cuore. Questa è la certezza: a Dio importa di me. A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, soffrendo per l’assenza di Dio, turbati per il suo silenzio. Questo comandamento ho appreso dal Padre: la vita è dono. Per stare bene l’uomo deve dare. Perché così fa Dio. Il pastore non può stare bene finché non sta bene ogni sua pecora. Il Dio del cristiano non sta bene nei cieli, discende e si compromette. Il cristiano non può star bene finché non sta bene suo fratello. E tutti, a nostra volta pastori di un minimo gregge, ripetiamo le parole di Gesù, ma in silenzio e coraggio: tu mi importi, tu figlio amato o sconosciuto fratello, tu incontro d’oggi o compagno di una vita, tu sei importante per me. Da qui parte l’avventura di coloro che vogliono sulla terra, come il pastore bello e coraggioso, custodire e lottare, camminare e liberare. Alla ricerca di Qualcuno che ci faccia diventare dono, che ci dia il coraggio di capire che dare la propria vita è l’unico comando, è l’unico modo per riempire e fare bella la vita.
Il buon pastore che offre la sua vita
Ermes Ronchi (Avvenire 26/04/2012)
Sottese all’espressione di Gesù: «il mercenario vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore» intuisco parole che amo e che sorreggono la mia fede. Suonano pressappoco così: al mercenario no, ma a me, pastore vero, le pecore importano. Tutte. Ed è come se a ciascuno di noi ripetesse: tu sei importante per me.
Questa è la mia fede: io gli importo. A Dio l’uomo importa, al punto che egli considera ogni uomo più importante di se stesso. È per questo che dà la vita: la sua vita per la mia vita. Ricordo il grido degli apostoli in una notte di tempesta «Signore, non ti importa che moriamo?» e il Signore risponde placando le onde, sgridando il vento: Sì, mi importa di voi, mi importa la vostra vita. E lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo ma voi valete più di molti passeri; mi importano anche i gigli del campo ma tu sei molto di più di tutti i gigli dei campi.
«Io sono il Pastore buono» è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine non ha nulla di debole o remissivo: è il pastore forte che si erge contro i lupi, che ha il coraggio di non fuggire; il pastore bello nel suo impeto generoso; il pastore vero che ha a cuore cose importanti. Il gesto specifico del pastore buono, il gesto più bello che lo rende letteralmente il “pastore bello”, è, per cinque volte: «Io offro la vita». Qui affiora il filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera di Dio: il lavoro di Dio è da sempre e per sempre offrire vita.
Con queste parole Gesù non intende per prima cosa la sua morte in Croce, perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince. Dare la vita, è inteso nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del grembo di donna che dà vita al bambino; dell’acqua che dà vita alla steppa arida. Offro la vita significa: Vi do il mio modo di amare e di lottare. Solo con un supplemento di vita, la sua, potremo battere coloro che amano la morte, i lupi di oggi. Anche noi, discepoli che vogliono come lui sperare e costruire, dare vita e liberare, siamo chiamati ad assumere il ruolo di “pastore buono”, cioè forte, bello, vero, di un pur minimo gregge che ci è consegnato: la famiglia, gli amici, coloro che si affidano a noi. Nel vivere quotidiano, “dare la vita” significa per prima cosa dare del nostro tempo, la cosa più rara e preziosa che abbiamo, essere tutto per l’altro, in ascolto attento, non distratti, occhi negli occhi. Questo è dirgli: tu mi importi.
Tu sei il solo pastore che per i cieli ci fa camminare, Tu il Pastore bello. E tu sai che quando diciamo a qualcuno «tu sei bello» è come dirgli «io ti amo».
(Letture: Atti degli apostoli 4, 8-12; Salmo 117; 1 Giovanni 3,1-2; Giovanni 10,11-18)