IL CARCERE. UNA BALENA SPIAGGIATA
Avvenire 3 ottobre 2024

IL CARCERE. UNA BALENA SPIAGGIATA.

Lucia Letizia Finetti (Avvenire 3 ottobre 2024)

 Pubblichiamo la testimonianza di Lucia Letizia Finetti, detenuta in un carcere del Nord Italia. Ha iniziato a raccontarsi qualche anno fa, nell’ambito di un laboratorio di scrittura.

In questo periodo si parla tanto di carcere ma nessuno di quelli che ne discutono sa in realtà il carcere che cos’è: né i garanti dei detenuti, né i volontari né il personale o la penitenziaria che dentro le mura ci vivono. I garanti lavorano su dati e testimonianze ma fra le mura di certo non hanno mai passato le notti, i natali, i ferragosti, e guardato negli angoli oscuri, perché in carcere come non si è liberi di uscire non si è liberi di entrare e andare dove si vuole, sono altri che ti ci portano e mostrano ciò che si vuole mostrare; i volontari non vedono i reparti, le celle, le docce, stanno negli spazi ufficiali. Gli agenti penitenziari sono l’altro lato della barricata, per loro i detenuti sono solo lavoro o, se stressati da anni di reparto, solo “scarti umani” che li inchiodano a un lavoro che non sopportano e che spesso hanno scelto solo per avere uno stipendio fisso e scappare dalla disoccupazione del nostro Meridione.
Quando giungi in carcere dalla vita civile hai l’impressione di trovarti all’inferno e più passano i giorni e più quell’impressione diventa realtà, non parlo di delinquenti abituali morti di fame che qui trovano vitto e alloggio che non hanno fuori, e non pagheranno, perché nullatenenti, il mantenimento perché, quasi nessuno lo sa, ma per stare in carcere si paga: 120 euro al mese che ti vengono sottratti dallo stipendio, se lavori, o ti arrivano da pagare fuori. La giustizia nel nostro Paese è una balena spiaggiata e morente e il carcere ne è la dimostrazione, un sistema punitivo e inutile perché non possiamo pensare di rieducare le persone tenendole chiuse quasi 24 ore su 24 in celle fatiscenti e sovraffollate (io stessa per mesi sono stata in una cella con la muffa alle pareti e dove ci pioveva dentro). Gli psicofarmaci sono la cosa più consumata in galera, molte li usano per passare la carcerazione incoscienti e dormendo, molte sono costrette ad usarli perché il carcere non è solo privazione della libertà (che paradossalmente è la cosa che ti pesa di meno), ma è trovarsi costrette a condividere giorno e notte la cella, spesso piccolissima, con 2 – 3 – 4 – 5 altre persone con cui non hai niente in comune e a volte sono disturbate psichicamente al punto da non poterci dormire la notte, spesso dentro per aggressioni e omicidi, e non sai cosa potrebbero farti mentre dormi; o sono psichicamente non violente ma non si lavano, pisciano nel letto e hanno altre orride abitudini, per non parlare di quelle che rubano oggetti o vestiti, ti diluiscono i detersivi con l’acqua o si fregano la tua spesa. In carcere urla, litigi, crisi sono all’ordine del giorno.
Il carcere è un mondo dove la normalità sparisce; per questo è così destabilizzante per chi ha sempre condotto una vita regolare: l’urbanità non c’è, la civiltà neanche, l’ignoranza e la convinzione che l’unica cosa che conta è la forza e i soldi radono al suolo qualsiasi comunicazione; è un luogo dove tutti fumano come turchi e venderebbero la propria madre per una sigaretta, quando ormai fuori è out da decenni; dove ottieni di più se fai peggio, dove sei costretto a fare la doccia in ciabatte per non beccarti malattie in docce che condividi con 30, 40, 50 persone; dove non vedi per anni una pianta ma solo cemento; dove mangi con piatti di plastica le stesse identiche cose di un vitto monotono, non potendo più mangiare una serie di cibi e bevande che ricordi e vedi solo in TV. Il carcere è alienante, dopo un po’ che ci sei dentro cominci a perdere pezzi di te stessa, dopo aver perso il nome di battesimo all’entrata, qui ci sono solo cognomi. Per prima se ne va la memoria, che risente del clima di insicurezza, precarietà, del rumore e dello stress continuo senza pause; poi cominci a perdere ogni interesse per il mondo esterno, a ciò che accade in quel fuori che non ti appartiene più; se hai qualcuno all’esterno ti struggi nella nostalgia e nella preoccupazione dei tuoi cari, ma pian piano l’esterno si perde e ti sembra di esser nato e cresciuto qui dentro, all’inferno, e che la vita al di fuori sia stata solo un sogno, un sogno perduto che non potrai più coltivare, e tutto ciò che eri, i tuoi interessi e le tue passioni, te stesso, non sia più importante perché è finito qui dentro, in questa cloaca da cui, forse, un giorno potrai uscire, ma che non uscirà più da dentro te stesso e allora è più facile mettersi un sacchetto di plastica in testa, aprire il gas del fornelletto da campeggio della cella e dormire per sempre: ecco che cosa è passato nella testa almeno una volta di chi è stato scagliato nella gehenna. Vi è da stupirsi che ogni giorno qualcuno cerchi di evadere con la morte al proprio assassinio?

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