Il sale evangelico contraddice il buonismo
Lilia Sebastiani

IL SALE EVANGELICO CONTRADDICE IL BUONISMO CRISTIANO
Lilia Sebastiani (ADISTA 9/1999) 

«Nel tempo e nell’ambiente in cui  si colloca questo detto di Gesù, il sale era importante, più di quanto lo sia oggi per noi. Era simbolo della sapienza (anche nel mondo classico: in greco e in latino, il termine che significa “sale” significa anche intelligenza, spirito, grazia, arguzia); inoltre gli si attribuiva la proprietà di conservare e proteggere la vita e quella di allontanare i demoni e tutte le influenze nefaste. Di qui l’importanza del sale nei sacrifici. Se il sale non fosse più sale, cioè se perdesse il proprio specifico, che poi non é una prerogativa fra le altre, ma coincide con il fatto di “essere”, che cosa sarebbe? Sul piano fisico l’ipotesi non funziona (il sale non può smettere di essere sale), ma funziona sul piano dell’allegoria e racchiude in sé una drammaticità particolare. Il rischio a cui rinviano le poco rassicuranti immagini di giudizio presenti in tante pagine anche dei Vangeli  – come qui,  «essere gettato via e calpestato dagli uomini»: immagini che noi, per forza di abitudine, ancora tendiamo a riferire alla sorte ultraterrena individuale – non é propriamente quello di “andare all’inferno”, ma piuttosto quello di  mancare il bersaglio, di fallire la propria esistenza. Una prospettiva non meno tragica, in termini storici, anche se ha il merito di  non emettere sentenze eterne e di affidare il mistero infinito di una persona all’infinito dell’amore di Dio. Qual è il dovere principale del credente, il suo specifico? Molti risponderebbero: essere buono, amare ecc., e forse – lo si dice sempre malvolentieri, ma bisogna dirlo – non è la risposta giusta. Naturalmente un cristiano che non fosse anche una persona buona sarebbe un pessimo cristiano, ma essere buoni, onesti, sinceri e generosi non è esclusivo dei cristiani: é un dovere, un indice di autenticità, é necessario, ma non sufficiente. Se lo specifico cristiano, nel senso più intimo e ontologico, è la vita nuova in Cristo, in termini più verificabili (il che non significa esteriori) è l’essere coscienza critica della storia secondo la logica della redenzione; farsi dunque in prima persona visibilità di ciò che si crede e si spera. Nel tempo e nell’ambiente in cui si colloca. Le immagini del sale e della luce in questo detto di Gesù sono trasparente figura della vita cristiana come testimonianza, e tutto l’insieme della testimonianza è incluso nell’accenno alle “buone opere”. Le buone opere sono la vita personale intesa come annuncio, ma spesso d’istinto vengono recepite con una meccanica equivalenza di parole tra due lingue, nel senso ristretto di “buone azioni” ‘ le quali, come abbiamo detto, sono dovere preciso dei cristiani come lo sarebbero di ogni persona umana in quanto tale, ma non bastano a costituire un cristiano. Recepire immediatamente ed esclusivamente in termini morali il messaggio scritturistico è insidioso: può risultare riduttivo, banalizzante, anche auto-rassicurante. Una nuova morale erompe, irrefrenabile, dall’annuncio di salvezza accolto con l’essere intero, ma non l’esaurisce. L’equivoco può essere aiutato, nella liturgia di questa domenica, dall’accostamento a una prima lettura (Is. 58, 7- 10) che mette l’accento soprattutto sul dovere di carità e ad alcune strofe piuttosto sapienziali del salmo 111.
Voi siete il sale della terra, ha detto Gesù. Invece ancora tanti, nella Chiesa e fuori di essa, ritengono che caratteristica di un buon cristiano” (e ancor più se si tratta di una “buona cristiana”) siano la carità intesa come attenzione a non disturbare nessuno, la mitezza nel senso di scarsa incisività, la pazienza come masochistico gusto di soffrire, l’umiltà come autosvalutazione. No, Gesù non ha mai detto ai suoi di essere l’acqua zuccherata della terra.
Dice anche: «Voi siete la luce del mondo».  Secondo il quarto vangelo, invece, lo dice di se stesso: «Io sono la luce del mondo» (Gv. 8,12 e 9,5).  Sappiamo che esegeticamente è sempre un tentare di armonizzare quello che dice il quarto vangelo con quello che dicono i sinottici (ed è un rischio anche contrapporre), ma in questo caso l’accostamento risulta di una singolare eloquenza.  Noi siamo la luce del mondo perché Lui è la luce del mondo.  Essere luce non è privilegio, ma responsabilità.  Per nostro conforto sappiamo che talvolta è possibile trasmettere ad altri, per qualche via misteriosa, anche la luce di cui non ci sembra di fare l’esperienza.
La luce ci viene donata per donarla, non per possederla.  Qualunque tentativo di appropriazione, anche se non potrà mai spegnerla, la offusca e limita la sua capacità di comunicare. Ci è affidata non solo per risplendere dinanzi a tutti (prospettiva “luminosa” certo, tuttavia immobile e, perciò, poco salvifica), ma perché tutto progressivamente si illumini e diventi capace a sua volta di trasmettere luce. Nella Chiesa primitiva, l’insieme del rito del battesimo veniva indicato con il termine “illuminazione”, fotismòs. La luce di Cristo è dinamica, comunicativa e trasformatrice. E’ una forte responsabilità quella di rendere irradiante e sperimentabile la salvezza.  E qui si trova, forse, l’unico criterio di autenticità per la testimonianza che dobbiamo rendere, anche nei suoi aspetti critici e dirompenti: un criterio esigente, nel suo genere, come neppure il più rigorista dei precetti potrebbe esserlo.  Ecco, non si può essere sale senza essere anche luce.  Nella consapevolezza, però, che senza “quel” sale, neppure quella luce può risplendere.

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