La paura di non portare frutti. Don Augusto Fontana
Mi ha sempre impressionato il fatto che delle ferventi comunità dei primi secoli, fondate da apostoli e martiri, resta solo la loro preistoria. Che cosa sarà delle nostre parrocchie fra qualche secolo? Le Chiese europee hanno perso un fervore neofita che ora pare diffuso su Chiese giovani del Sud del mondo. Resteremo reperti archeologici e territori da rievangelizzare? Gravi sono, oggi, anche le paure nel più vasto campo delle società. Il nostro grande albero sta producendo ancora frutta selvatica: il mercato marcia e il lavoro marcisce; le previdenze sociali vengono risicate; gli accordi di pace sono fragili come anche fragili sono gli accordi affettivi che producono relazioni disastrate; si imbarbariscono i rapporti tra istituzioni e, perchè no?, tra fedi religiose. La vita è un rischio continuo, da qualsiasi parte la si prenda.
Paolo scrive alla comunità di Filippi e la esorta a non lasciarsi prendere dal panico (“non affannatevi, ma in ogni necessità fate presente a Dio le vostre richieste perchè la pace di Dio vi custodirà in Cristo”), ma Matteo e Isaia sembrano non fare sconti (“Renderò la mia vigna un deserto arido…Vi toglierò il Regno di Dio e lo darò ad un popolo che lo farà fruttificare”). I cristiani di Filippi erano alle prese con problemi quotidiani di ostilità esterne e di conflitti e divergenze interne. Allora Paolo raccomanda di non lasciarsi affannare eccessivamente. Viene in mente la raccomandazione di Gesù riportata da Matteo 6, 23: non affannatevi per cibo, bevanda, vestito e futuro, ma occupatevi della vita e dell’oggi dentro la tenerezza di Dio. Paolo augura una pace di Dio che non assomigli certo ad una polizza assicurativa contro infortuni e contraddizioni pastorali ed esistenziali, ma esclude panico e paralisi, comprendendo una resistenza attiva e fiduciosa. La resistenza attiva la si compie sulle barricate della vita quotidiana attivando in famiglia, sul lavoro, nei condomini e nella parrocchia il circolo virtuoso di tutto ciò che è “vero, nobile, giusto, puro, amabile, apprezzato, virtuoso, lodevole”. La resistenza fiduciosa la si sperimenta sulle barricate della preghiera di intercessione il cui paradigma è il Padre Nostro che resta l’intramontabile barriera contro la banalizzazione di Dio e dei nostri veri bisogni.
La Liturgia sostiene il motivo di questa fiducia riconoscente: siamo una vigna circondata dalle affettuose cure del contadino. Anche Geremia ed Ezechiele, oltre a Isaia, adottano l’allegoria della vigna e della sposa per descrivere come si crea, si strappa e si ricuce il tessuto dei rapporti affettivi tra Dio e comunità. Chi avesse modo di rileggersi Ezechiele dal capitolo 15 al 20 potrebbe essere preso da una santa paura per i rischi che incombono sulla comunità religiosa che si autoassolve, non si lascia provocare dai segni e dai profeti del suo tempo chiudendosi in un’autarchia pigra e supponente.
La prima vera paura che dovremmo avere è di portare frutti selvatici deludendo le attese del Signore (Isaia 5: “Egli aspettava che la sua vigna producesse uva dolce ed invece ha prodotto uva selvatica e cioè aspettava giustizia e la vigna ha prodotto delitti; aspettava rettitudine ed ha prodotto grida di oppressi”). I due punti “caldi” del brano evangelico (Matteo 21, 33-43) da un lato mettono al centro il problema della Chiesa in relazione alla Sinagoga ebraica e all’affievolirsi della fedeltà nelle opere della fede (“Darà la vigna ad altri contadini che gli consegneranno i frutti a suo tempo…Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.”) e dall’altro, con la citazione del Salmo 118 (“La pietra che i costruttori hanno scartato diventerà la pietra insostituibile”) si evidenzia il ruolo di Gesù crocifisso e risorto quale fondamento della Chiesa e rigido criterio per la sua attività. La parabola evangelica è il riepilogo della Storia Sacra fino all’ultimo atto della esclusione di Gesù. Esclusione non attribuibile ai soli giudei, ma possibile anche da parte di chi, come me, continua a declamarsi cristiano estromettendo cortesemente Gesù dai recinti della vita quotidiana. E’ la storia di uomini che, chiamati ad essere servi coltivatori del campo, se ne fanno proprietari rivendicandone i diritti come conseguenza del loro attivismo. Scoprire il dono, invece, porta a ritenersi semplici custodi e non possessori. E’ la storia di chi ha paura del nuovo che sconvolge i piani: la polemica antigiudaica di Matteo non si rivolge solo all’immobilismo giudaico del suo tempo di fronte alla novità di Gesù, ma anche ai membri della sua comunità che pretendono di fissare l’azione di Dio nelle tradizioni del passato e in base ai criteri del loro vissuto. E’ la storia di chi preferisce palpare i frutti o consumarli nello spazio intra-ecclesiale anziché consegnarli e socializzarli mediante una partecipazione attiva, testimoniante e missionaria.
Il tema del giudizio non vuole perpetuare l’equivoco di un Dio-padre-padrone che dà e toglie, assume e licenzia, ma ha lo scopo di creare una biblica gelosia, un religioso timore, un risveglio della coscienza e della responsabilità senza spazi per il quietismo. L’allegoria di Isaia e la Parabola di Matteo hanno dunque una doppia valenza. Sono una “buona notizia” : chiunque tu sia, dovunque tu sia, qualunque capacità tu abbia, in qualunque ora della tua vita tu puoi lavorare nella vigna del Regno e farla fruttificare per il Signore e per la comunità. Sono anche un “avvertimento”: chiunque tu sia, prete o laico, puoi rischiare di percuotere i servi di Dio, tagliar fuori suo Figlio e sciupare, nella insignificanza, la responsabilità che ti è data.
Padre giusto e misericordioso, che vegli incessantemente sulla tua Chiesa, non abbandonare la vigna che la tua destra ha piantato. Continua a coltivarla ed arricchirla di scelti germogli perchè innestata in Cristo, vera vite, porti frutti abbondanti di vita eterna.