LA SPERANZA È UN FIORE NEL DESERTO
don Angelo Casati

LA SPERANZA È UN FIORE NEL DESERTO
di Angelo Casati

La speranza, sembrano dire i testi biblici che oggi abbiamo ascoltato, nasce nel deserto, è un fiore del deserto. Fiore del deserto in tanti sensi.  Oggi l’evangelo di Luca aveva un versetto di una potenza sintetica struggente. Luca scrive: “La parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto“. E Luca parla evidentemente di un deserto geografico, luogo di tirocinio per il profeta. Ma Luca ha appena finito di evocare un tempo, una stagione, un’ora della storia cui potremmo dare la figura del deserto. L’ha evocata con un inizio solenne: “Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare…“. E poi ecco uno srotolarsi di nomi eccellenti del mondo politico del tempo: Ponzio Pilato, Erode, Filippo, Lisania, fino ai nomi eccellenti del mondo religioso, i sommi sacerdoti Anna e Caifa. I nomi parlano da se stessi, evocano il degrado, quello politico a causa dell’occupazione del paese da parte dei Romani, ma anche quello religioso, il degrado del sacerdozio. Anna infatti con una serie di intrighi era riuscito nell’intento di tenere sotto controllo quel centro di potere che era il tempio, sistemandovi prima i figli e poi il genero Caifa. Squallore della situazione civile e squallore della politica ecclesiastica. Un quadro deprimente! Squallore e deserto! Ed ecco la risposta di Dio. “La parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto“.

Anche nella prima lettura, voce del profeta Baruc, il grido della speranza serpeggiava dentro una situazione di sofferenza e di dispersione, il grido si propagava in una terra d’esilio, scuoteva le case di un popolo in esilio: “Deponi, Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivestiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre“. Ci sono i deserti, anche oggi, i deserti dell’anima, i deserti delle deportazioni, deportazioni di umanità. I deserti che ti fanno dire: ma è questo il Paese che avevamo sognato, è questa la Chiesa che avevamo sognato? I deserti che rendono tristi i nostri occhi. Ma oggi la voce tocca le nostre case, le case dell’anima, scuote il grigiore dell’indifferenza, scuote il nostro pessimismo spirituale, quel pessimismo che ci fa dire: “Quante volte abbiamo ascoltato questa parola e non è cambiato niente, non solo nel mondo, ma nemmeno dentro di noi e ci è sembrato di assistere a un naufragio, il naufragio della speranza?”. Non sempre però, dobbiamo riconoscerlo, abbiamo intuito con lucidità, e non sempre forse ci siamo detti con limpidezza da dove iniziasse un cambiamento e quale fosse il luogo, se così vogliamo chiamarlo, il luogo generatore, il grembo della nascita, il grembo della speranza. A proposito del luogo, assistiamo, nel Vangelo, a una sorta di dirottamento, uno dei tanti dirottamenti di Dio. E Luca con quell’introduzione solenne, con quei nomi che indicano come  importanti i palazzi della storia, palazzi civili ed ecclesiastici, sembra ingigantire la sorpresa, oserei dire l’incredulità, per il dirottamento di Dio: “La Parola di Dio scese su Giovanni… nel deserto“. Come a dire che il terreno fertile generatore della speranza non è in alto e non è nel frastuono, non è nella vita‑spettacolo, non è nella babele delle parole e delle cose. È in una vita che rispecchi l’essenzialità e il silenzio del deserto. La domanda che la pagina di Luca mi lascia è questa: quali spazi di silenzio, nel paese dell’anima?  Ma non basta neppure il silenzio, perché il deserto della vita fiorisca. Il deserto rimarrebbe deserto se ad incrociarlo non fosse la parola. E non una delle tante nostre pallide parole, ma la parola accesa di Dio: “La parola di Dio scese… su Giovanni nel deserto“. Chissà se sempre avvertiamo, o almeno qualche volta avvertiamo, la potenza di cambiamento custodita nella parola di Dio. Se il silenzio dell’anima incrocia la parola di Dio, fiorisce la speranza anche in tempi di deserto. Mi colpiva oggi un’immagine nel brano del profeta Baruc. Anche nel brano che addita il ritorno dall’esilio, si parla di parola di Dio, se ne parla con un’immagine che, in qualche misura, potrebbe richiamare, sarebbe bello, le nostre assemblee liturgiche. Dice il profeta: “Sorgi, Gerusalemme, sta in piedi sull’altura e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti da Occidente a Oriente, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio“. Una chiesa dovrebbe esultare di questo. Non dei suoi successi mondani, ma dei figli riuniti alla parola del Santo. Ci sarebbe al contrario da sentirsi sconvolti, sconcertati e rattristati dalle indagini che nella considerazione dei credenti oggi mettono al primo posto, che so io, Padre Pio e qualche santo e lontano, molto lontano, il Santo, il figlio di Dio, Gesù di Nazaret. Riuniti intorno a chi? Alla parola del Santo, che nella Bibbia è Dio? Perché la salvezza giunga fino a noi, nei due brani, quello di Baruc e quello di Luca, si usano le identiche immagini. “Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi secolari, di colmare le valli, perché Israele proceda sicuro” così il profeta Baruc. “Ogni burrone sia riempito, ogni monte e ogni colle abbassato“. Messaggio contro ogni ubriacatura dell’io e contro ogni devastazione della depressione. Ma mi chiedevo: spianare perché? Perché ritorni il popolo, sembra dire Baruc. Perché ritorni Dio, sembra dire il Battista. Ma forse la domanda è sbagliata. Perché se ritorna Dio ritorniamo noi dall’esilio e se ritorniamo noi dall’esilio allora ritorna Dio sulla terra.

image_pdfScarica PDFimage_printStampa