LAVORO FRAGILE, ASSENTE, RIFIUTATO
Costantino Corbari (ROCCA n.24)

Lavoro fragile, assente, rifiutato

Costantino Corbari[1] (ROCCA n.24, 15 dicembre 2022)

Il lavoro resta alla base della nostra vita, tuttavia è sempre meno centra­le nell’agenda del Paese. Evidente la sua progressiva perdita di rilievo nel dibattito politico. Guerra in Ucraina, energia, inflazione: queste al momen­to le emergenze per partiti e istituzioni. Inoltre, processi innovativi, robotica e in­telligenza artificiale rendono la presenza dell’uomo sempre meno indispensabile negli ambiti produttivi oltre che in quelli creativi. Ancora, il lavoro sembra non ve­nire considerato prioritario neanche dai molti giovani che lo vivono con sentimen­to di distacco, come obbligo utile per la sopravvivenza. La vita è altrove. «Il lavoro è un dato originario interno che concorre a definire il significato stesso dell’esistenza» ha scritto Francesco Nova­ra, tra i fondatori della psicologia del la­voro. Ma quanti di coloro che abbandonano il posto fisso per altre strade, o non si pre­sentano sul mercato del lavoro o vivono di precarietà e insicurezza, condividono le sue parole? Oppure si sentono parte del cammino che indica il costituzionalista Filippo Pizzolato: «Il lavoro è il contributo che ogni cittadino è chiamato a dare alla costituzione cooperativa della conviven­za»? Sono interrogativi che si sono poste le Acli lombarde nell’avviare una riflessione sul tema del lavoro, di come stia cambiando e di come questo incida sull’atteggiamento oltre che sulla vita delle persone. Parten­do dalla convinzione che il lavoro, nono­stante la sua apparente marginalità, sia ancora uno spazio di crescita personale oltre che fonte di riconoscimento sociale. Il ciclo dei dialoghi ha preso avvio da un approfondimento sul lavoro «fragile, as­sente, rifiutato». Tre aggettivi che ben descrivono la realtà del lato debole del la­voro. Una condizione che coinvolge milio­ni di persone che faticano a trovare una soddisfacente collocazione nel mercato del lavoro. Si tratta di un’area estesa di disoccupati cronici, di sottoccupati, di precari, di working poor, di lavoratori in nero, di si­tuazioni di caporalato, ma anche di giova­ni in costante ricerca di un lavoro decen­te e di lavoratori che puntano ad una oc­cupazione che assicuri un migliore equili­brio tra vita privata e impegno lavorativo. Ma di cosa parliamo concretamente quan­do usiamo le parole: fragilità, assenza e rifiuto a proposito del lavoro?
Lavoro fragile.
Fragile è il lavoro precario, temporaneo. Sono precari coloro che vivono una gene­rale condizione di incertezza che si pro­trae per molto tempo. In Italia, secondo le rilevazioni Istat, sono oltre tre milioni. Fragile è il lavoro povero, sottopagato. Un recente studio Ocse ci dice che negli ulti­mi 30 anni i salari medi reali degli italiani sono diminuiti del 3,6%. Un dato che te­stimonia il diffondersi di una condizione di povertà lavorativa, cioè di chi vive in una situazione di povertà nonostante sia occupato.
Fragile è il lavoro nero. Non dobbiamo commettere l’errore di pensare solo al Sud e alla raccolta dei pomodori. Modalità di intermediazione illecita di manodopera sono presenti in tutt’Italia e in ogni cam­po lavorativo: edilizia, sanità, assistenza, case di cura, logistica, call-center, ristora­zione, servizi a domicilio, pesca, cantieri­stica navale. Lavoro nero vuol dire anche caporalato. Fenomeno che riguarda parti­colarmente i soggetti più vulnerabili quali i migranti, le donne e i minori.
Fragile è il lavoro insicuro. Sebbene non ci sia una correlazione lineare, è evidente che dove c’è più lavoro precario il rischio che accadano degli incidenti è più eleva­to. Quasi mezzo milione le denunce per infortuni sul lavoro presentate all’Inail nei primi otto mesi del 2022. Tre al giorno i morti da gennaio a fine agosto.
Lavoro assente.
Per molti il lavoro non c’è. Il tasso di disoccupazione è al 7,8% a fine agosto (6,7% uomini, 9,3% donne). Nel Sud e nelle isole si arriva al 14,2%.I giovani tra 15 e 24 anni senza un lavoro sono il 21,2%. Nei prossi­mi mesi è atteso un peggioramento dell’oc­cupazione per la crisi causata dal costo dell’energia e dalla guerra in Ucraina.
I tassi in questo momento sono in calo an­che grazie alla crescita del numero di per­sone che hanno smesso di cercare un lavo­ro. I giovani che non studiano, non lavora­no e non frequentano corsi di formazione – i famosi neet, tra i 15 e i 29 anni – sono circa tre milioni, con una leggera preva­lenza femminile. Una massa di persone che rischiano la marginalizzazione cronica, ca­ratterizzata non solo da povertà materiale e carenza di prospettive, ma anche da de­pressione psicologica e disagio emotivo. Una perdita grave, individuale e sociale.
Lavoro rifiutato.
Fenomeno recente quello delle numerose dimissioni volontarie, la Great Resigna­tion, assai cresciute in epoca Covid. Nei primi sette mesi del 2022 sono state più di un milione le persone con contratto di la­voro a tempo indeterminato che hanno lasciato un posto sicuro, il valore più ele­vato dell’ultimo decennio. Parliamo di per­sone, per lo più giovani, che rinunciano all’impiego nella speranza, o illusione, di una migliore qualità della vita privata. Il posto fisso è importante ma non può mor­tificare la vita, le relazioni, le speranze di una condizione umana piena.
La forte crescita dell’occupazione, che ha caratterizzato la prima parte dell’anno, e la difficoltà delle imprese a trovare le fi­gure professionali cercate, rafforzano la capacità contrattuale di coloro che cerca­no un’occupazione adeguata alle loro aspettative e questo favorisce un così am­pio numero di dimissioni.
Sono tante infatti le imprese che cercano gente da impiegare in officina, in cantie­re o in ufficio, poche le persone disposte a farsi assumere. Un fenomeno che evi­denzia inoltre la realtà di un disallinea­mento tra le competenze necessarie e quelle disponibili con un importante pro­blema di formazione.
C’è infine da considerare che ogni anno decine di migliaia di giovani lasciano l’Ita­lia alla ricerca di un posto di lavoro più soddisfacente, di una migliore retribuzio­ne oltre che di nuove esperienze. Possiamo oggi immaginare un cambio di rotta e la correzione di una realtà sempre più distorta?
La politica pensa ad altro. Giorgia Meloni nel suo primo discorso, quello alla Camera dei deputati, non ha mai citato né la parola lavoro, né la parola sindacati. La sinistra è avvitata su se stessa, litigiosa e distante dai problemi concreti delle persone.
I sindacati confederali, purtroppo sempre più deboli, spesso divisi tra loro, eviden­ziano una ridotta capacità di incidere sul­le scelte. L’azione contrattuale non è bloc­cata e molti contratti di lavoro vengono rinnovati, sia nazionali di categoria che di singole imprese. Occorre però tenere presente che l’occupazione nell’industria – dove Cgil, Cisl e Uil sono più forti – pesa per poco meno del 20% del totale mentre quella nei servizi – dove il sindacato è più debole e dove regna la precarietà – rap­presenta circa il 72% del totale. Confindustria, dal canto suo, in concomitan­za con l’insediamento del nuovo governo ha pensato bene di sottoscrivere un accordo per gli artigiani con la sola U gl, sindacato notoriamente vicino alla destra politica, con condizioni peggiorative rispetto a quelle in essere con le imprese aderenti alle associa­zioni artigiane. Immediata la reazione delle organizzazioni sindacali maggiori che han­no protestato per la violazione del «Patto per la fabbrica» e l’incentivo ai contratti pirata. Un semplice caso? Un segnale alla Meloni? Lo capiremo presto.
Papa Francesco, in occasione dell’incon­tro con gli aclisti per il 70° dell’associazio­ne, ebbe a dire queste parole: «Davanti a questa cultura dello scarto, vi invito a realizzare un sogno che vola più in alto. Dob­biamo far sì che, attraverso il lavoro – il ‘lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale‘ – l’essere umano esprima ed ac­cresca la dignità della propria vita». Un sogno che molti non riescono neppure ad immaginare.


[1] Giornalista, docu­mentarista Tv, Uf­ficio Studi Acli Lombardia

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