Lavoro: il fenomeno del quiet quitting, stacanovismo vs benessere
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Tanti lavoratori rinunciano alla super-performance e all’attivismo professionale a favore di una vita più rilassata.
Sempre connessi, lavorando oltre l’orario e assumendosi responsabilità superiori a quelle previste dalla propria funzione? No grazie.
Sono sempre di più i lavoratori che optano per il cosiddetto quiet quitting, ovvero si attengono a quanto scritto nel loro contratto, quanto a impegno e a orari, senza spingersi oltre a scapito della propria vita personale. In questo modo lo stress è molto inferiore e anche la qualità della vita ci guadagna, con più tempo libero, un approccio più rilassato agli impegni professionali e minore rischio di burnout. Il fenomeno è presente da molto tempo, ma è diventato più evidente dopo la pandemia, occasione in cui molte persone hanno ripensato il proprio rapporto con il lavoro, con le proprie aspettative e con i propri simili.
CHE COS’È IL QUIET QUITTING
L’espressione, tradotta alla lettera, potrebbe suonare come “abbandono silenzioso”. In pratica consiste nell’attenersi strettamente alle proprie mansioni e solo a quelle, come previste nel contratto di lavoro e per le quali si percepisce un certo stipendio. Niente straordinari, dunque, niente responsabilità in prima persona oltre i limiti della propria funzione, coinvolgimento personale ridotto all’osso. Detto così, assomiglia molto al fare il minimo indispensabile per non essere licenziati, tipico di chi è attaccato al proprio “posto fisso” raccontato anche da Checco Zalone nel film “Quo Vado?”. In realtà, occorre leggere il fenomeno, nato negli Stati Uniti, come contrapposizione a un altro approccio alla vita professionale, tipico della società americana: la “hustle culture”, secondo la quale tutta la vita è dominata da un’attività febbrile, in cui il lavoro dilaga in modo incondizionato e fagocita l’intera giornata: potremmo chiamarla iperlavoro o stacanovismo. Quando il modello dominante è di questo genere, il fatto di rallentare per tornare a ritmi più normali è ben diverso dall’essere lavativi.
COME È NATO
Il termine “quiet quitting” ha fatto la sua comparsa nel 2009, in occasione di un simposio di economia, ed è stato coniato dall’economista Mark Boldger. Da qualche tempo il fenomeno dilaga sui social network, in cui numeri crescenti di persone si dichiarano intenzionate ad un approccio più rilassato al mondo professionale, rifiutando la cultura che ci vuole sempre connessi e sempre sul pezzo. La filosofia del quiet quitting punta a mettere un confine tra sé e la propria vita lavorativa, per godere anche di altri aspetti dell’esistenza, tra cui la famiglia, la vita e gli interessi personali, la soddisfazione di certe curiosità. Il fenomeno sembra più diffuso tra i giovani, per i quali l’attività professionale non è più al vertice delle aspettative di autorealizzazione. Insomma, il lavoro comincia a non essere più l’unica realtà in grado di definirci.
BURNOUT VS. PIGRIZIA
Anche per questo fenomeno, come spesso accade, ci possono essere diverse chiavi di lettura. Da un lato, il fatto di attenersi allo stretto indispensabile e di lavorare quel tanto che basta per non essere licenziati è ben diverso dal rifiutarsi di essere travolti dai compiti e dalle responsabilità, con straordinari non pagati e con mansioni molto superiori a quelle previste dal contratto e non adeguatamente retribuite. Il primo caso è naturalmente deprecabile, mentre è difficile non essere d’accordo con chi appartiene al secondo gruppo. Il datore di lavoro, da parte sua, spesso sfrutta proprio il demansionamento o addirittura il mobbing, per invogliare il dipendente a licenziarsi. In questo modo, però, il lavoratore è sempre più portato a disaffezionarsi al proprio lavoro e a dedicarvisi con il minimo impegno la minor fatica possibile.
IL GIUSTO MEZZO
Lavorare con passione rende l’impegno professionale molto più gratificante che trascinare le giornate stancamente, aspettando solo l’orario in cui andarsene a casa. Il fatto però di non lasciarsi trascinare oltre i limiti di quello che la propria posizione prevede è un atteggiamento sano che, tra l’altro, è a salvaguardia della salute. Il burnout, ossia l’esaurimento completo delle risorse psicofisiche, è una condizione di estremo malessere, ma è controproducente anche per il datore di lavoro perché il dipendente in queste condizioni è meno efficiente e più soggetto a commettere errori. Il 2021 è stato, negli Stati Uniti, un anno in cui si sono verificate dimissioni di massa da parte di persone impiegate soprattutto nell’ambito dei servizi: secondo un sondaggio realizzato negli Stati Uniti dal Pew Research Center, i lavoratori dipendenti hanno iniziato a pensare in modo del tutto diverso alle proprie ambizioni professionali, allo stipendio e alle possibilità di carriera, attribuendo sempre maggiore considerazione al modo in cui sono trattati in azienda e alle eventuali opportunità di progresso.
Sono stati proprio questi due aspetti, insieme alla bassa retribuzione e alla sensazione di non essere rispettati, i motivi principali per cui hanno deciso di licenziarsi. Ma soprattutto è stata messa in discussione la filosofia per cui il lavoro viene al primo posto nella vita sempre e comunque, tanto è vero che numeri crescenti di americani hanno scelto di rinunciare al lavoro per inseguire sogni, passioni, stili di vita più sostenibili. Il quiet quitting si propone questi stessi obiettivi, anche se in forma meno estrema rispetto alle dimissioni vere e proprie. Non si tratta più di smettere di lavorare (dati i tempi che corrono, chi può permetterselo?), ma di lavorare meglio, senza lasciarsi stritolare dal sistema e, soprattutto, con la possibilità di lasciare in ufficio, a orario scaduto, preoccupazioni e ansie legate al lavoro.