Lavoro welfare pace contro precarietà riarmo guerra
Luigi Pandolfi (Rocca 1 maggio 2022)

Lavoro welfare pace contro precarietà riarmo guerra
Luigi Pandolfi[1] (Rocca 1 maggio 2022)

Qual è la «situazione del lavoro» oggi in Italia? Rispondere a que­sta domanda significa innanzi­tutto fare i conti con i grandi cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro negli ultimi trent’anni. Molto in sintesi, si può dire che innovazione tecnologica e instabilità/fram­mentazione del lavoro sono cresciuti di pari passo in questo periodo. Situazione cui ha fatto da corollario una sostanziale contrazione dei diritti dei lavoratori.
Lo spacchettamento del mondo del lavoro.
La fine del ciclo fordista/taylorista, il cui cuore era la grande fabbrica omogenea e la dimensione nazionale della produzione e del mercato, ha portato con sé uno spac­chettamento del mondo del lavoro. Oggi si può lavorare per la stessa azienda, svolge­re mansioni identiche, e avere contratti diversi e diverse remunerazioni. Sotto lo stesso tetto di un’impresa, e per le stesse tipologie di lavoro, possono ritrovarsi lavo­ratori a tempo indeterminato e detentori di partita Iva, co.co.co e lavoratori «som­ministrati». Non solo. Per la stessa azienda possono fornire la propria opera lavoratori e professionisti contrattualizzati da soggetti diversi, come accade nel caso dell’esterna­lizzazione di alcuni servizi o segmenti di produzione. È un discorso, ormai, che ri­guarda tutto il mondo del lavoro, compre­so quello che afferisce al comparto della pubblica amministrazione o degli enti di ricerca. Lavoratori, ricercatori e professio­nisti, che svolgono le medesime attività, spesso nel medesimo posto, ma con diritti diversi. Si pensi ai precari di lungo corso del settore della ricerca che lavorano negli stessi ambienti, negli stessi laboratori, dei colleghi a tempo indeterminato, ovvero ai lavoratori di «pubblica utilità» o «socialmente utili» che nei comuni condividono la stanza, e a volte anche la scrivania, con i dipendenti in pianta organica, strutturati e full time.
La fine dell’universalità dei diritti nel mondo del lavoro. Un fenomeno che ha spostato la conflittualità ad un livel­lo, per così dire, orizzontale, tra gli stessi lavoratori: precari contro «garantiti»; gio­vani contro anziani; le donne in competi­zione con gli uomini; gli stranieri in con­correnza con gli autoctoni. Non è stato, in ogni caso, un fenomeno spontaneo, ma il risultato di precise scelte politiche. A par­tire dai primi anni Novanta, parallelamen­te al rilancio del progetto di costruzione dell’unità politica e monetaria europea (più monetaria che politica, in verità), si è in­tervenuti massicciamente sulla legislazio­ne riguardante il lavoro e il suo «mercato».
Le «riforme» che hanno precarizzato.
L’arco temporale è quello che va dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso alla fine degli anni dieci del nuovo secolo.
Vent’anni di «riforme» che hanno radicalmente tra­sformato il mondo del lavoro, nella direzio­ne di una sua crescente precarizzazione.

  1. Un primo intervento organico si è avuto con il cosiddetto «pacchetto Treu» (dal nome del ministro Tiziano Treu) nel 1997. Nel vocabo­lario della politica entra prepotentemente un termine con cui ancora ai giorni nostri facciamo i conti: «flessibilità». Con l’obietti­vo di favorire un più facile accesso al mer­cato del lavoro, per i giovani ma non solo, si sdoganano l’intermediazione privata tra do­manda e offerta di lavoro (lavoro interinale) e molteplici forme di contratti a termine; parimenti, si indebolisce il collocamento pubblico e si rafforza la linea di continuità tra scuola e lavoro attraverso l’apprendista­to e i tirocini. Nello stesso «pacchetto» si dà il via alla stagione del precariato nella pub­blica amministrazione: un esercito di lavo­ratori di pubblica utilità (Lpu), soprattutto nel Mezzogiorno, finisce per strutturare un bacino endemico di precariato nei comuni, nelle province e nelle regioni, che ancora al giorno d’oggi non è stato del tutto svuotato.
  2. Cinque anni dopo arriva la «riforma Biagi» (dal nome del giuslavorista assassinato dal­le «nuove Brigate Rosse» nel 2002). Nell’in­tento – quello dichiarato – di mettere ordi­ne nella giungla dei «nuovi lavori» (viene abrogato il lavoro interinale), si procede al­l’introduzione di altre tipologie di lavoro a termine, spezzettato, purtroppo instabile e precario. Nascono i co.co.pro, i «contratti di somministrazione di lavoro» e di «lavoro ripartito», il «lavoro intermittente» e quello «occasionale». A ben vedere è un allargamen­to del ventaglio dei contratti «atipici». Il quadro normativo con cui il Paese entra nella Grande recessione seguita al crack americano dei subprime. È la stagione dell’auste­rità, del risanamento dei conti pubblici, delle «riforme strutturali».
  3. Il governo Monti (2011- 2013) ritorna di nuovo sulla materia. Ed an­che in questo caso l’obiettivo dichiarato è quello di proteggere i lavoratori dall’insicu­rezza lavorativa. Invero, accanto ad alcuni interventi tendenti a disincentivare il ricor­so a contratti atipici, la «riforma Fornero» (dal nome del Ministro Elsa Fornero) punta a rendere più «flessibile» l’uscita dal lavo­ro. Espressione edulcorata per indicare «licenzia­menti più facili». Un bilanciamento nell’in­teresse delle imprese, riassunto nella se­guente formula: « Un mercato del lavoro più inclusivo e più dinamico».
  4. La stessa visione, grossomodo, che sovrintenderà due anni più tardi al JobsAct varato dal governo di Mat­teo Renzi (2014). Su questo provvedimento vale la pena soffermarsi un po’ di più, pren­dendo in esame la fattispecie delle cosid­dette «tutele crescenti». Dalla disposizione contenuta nel testo di riforma si ricava che è l’anzianità di servizio a determinare il gra­do di godimento dei diritti costituzionali da parte dei lavoratori, dunque, nella generali­tà dei casi, l’età dello stesso lavoratore. Ep­pure, nel nostro ordinamento, solo la mag­giore età costituisce uno spartiacque nella storia personale di un individuo, delinean­do una separazione tra un prima e un dopo nella scala di godimento dei diritti sanciti dalla Costituzione. Beninteso, un minore non ha diritto di voto, non ha facoltà piena di porre in essere atti negoziali, ma non per questo è passibile di soprusi e di discrimi­nazioni. Anzi, c’è una tutela rafforzata che li riguarda, in quanto «soggetti deboli». Nel­lo schema proposto dal governo in materia di rapporti di lavoro, c’è invece un rovescia­mento del principio: più sei giovane (in Ita­lia si può lavorare già a 13 anni) meno tutele e diritti avrai. Uno stravolgimento del prin­cipio cardine della nostra Legge fondamen­tale: «Tutti i cittadini hanno pari dignità so­ciale e sono eguali davanti alla legge, ( …)».
  5. Così si arriva al «decreto dignità» voluto dal Movimento 5 Stelle nel 2018, al tempo del governo gialloverde. Un intervento con un evidente scarto tra finalità dichiarate e ri­sultati conseguibili. Non risolve il problema della polverizzazione dei contratti «atipici» e si concentra quasi esclusivamente sulla durata ed il prolungamento dei contratti a tempo determinato. Si prevede la diminu­zione della durata massima dei contratti a termine da 36 a 24 mesi; l’obbligo di dichia­rare i motivi del ricorso al contratto a ter­mine; la possibilità di prorogare solo quat­tro volte un contratto a tempo determinato mentre prima le possibilità erano cinque. Intenti giusti, ma configurati in un provve­dimento frettoloso, al di fuori di una revi­sione organica delle norme vigenti in mate­ria di lavoro, che non hanno sortito effetti particolarmente significativi dal lato della lotta alla precarietà.

Dopo più di un secolo e mezzo, mutatis mutandis, siamo ancora a ciò che il giovane Marx, umanista prima di abbracciare la «critica dell’economia politi­ca», scriveva nel Manoscritti economi­co-filosofici del 1844: «Il risultato è che l’uo­mo (il lavoratore) si sente libero ormai sol­tanto nelle sue funzioni bestiali, nel man­giare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’avere una casa, nella sua cura corpora­le ecc., e che nelle funzioni umane si sente niente più che una bestia». D’altra parte, come si accennava all’inizio, i progressi del­la scienza e della tecnica, la rivoluzione in­formatica, anziché «liberare» il lavoro e ri­partirlo, sono stati funzionali ad un suo più duro asservimento, oltre che al suo rispar­mio (disoccupazione tecnologica).
Un’economia che produce disuguaglianza.
Parliamo di un lungo processo di destrut­turazione dei rapporti di lavoro e delle re­lazioni industriali, funzionale ad un’econo­mia sempre più orientata alle esportazioni (nel 2020, nonostante la pandemia, il saldo della bilancia commerciale italiana è stato di 63,6 miliardi di euro) ed alla compres­sione della domanda interna, che ha pro­dotto e produce diseguaglianze, che è alla base di salari e stipendi, a parità di potere d’acquisto, tra i più bassi d’Europa. Una recente analisi dell’Ocse ha dimostrato addirittura che l’Italia è l’unico paese in ambito Ue in cui i salari, al netto dell’infla­zione, sono diminuiti rispetto a trent’anni fa. Mentre in Germania e in Francia sono aumentati di circa il 30%, da noi sono di­minuiti del 2,9%. Intanto, se si fa un con­fronto con la situazione degli altri paesi europei, ciò che balza agli occhi è anche l’estensione dell’area del non-lavoro. Insie­me alla Grecia condividiamo gli ultimi po­sti della classifica europea per quanto ri­guarda il tasso di disoccupazione generale e quello giovanile. Dati che hanno subìto un forte peggioramento a causa della pan­demia. Con il rimbalzo dell’economia dopo il tonfo del 2020 (8,9% sull’anno preceden­te), stiamo però assistendo anche ad un recupero dei posti di lavoro persi. Gli ulti­mi dati forniti dall’Istat ci dicono che il tasso di disoccupazione è sceso all’8,5% (se nel calcolo vengono inseriti anche quelli che non cercano più un lavoro la percentuale lievita fino al 22%) e c’è stato anche un balzo in avanti del tasso di occupazione (59,6%). Del milione di posti di lavoro persi a causa del Covid se ne sono recuperati all’incirca 700 mila. Ma di che lavoro par­liamo? Secondo le stime del Ministero del lavoro il 99% dei contratti è a tempo deter­minato e uno su dieci ha avuto una durata non superiore alle 24 ore. Il 13,3% di questi «contratti» ha avuto addirittura la durata di un solo giorno. Non ne stiamo uscendo migliori. Non sta andando tutto bene. Dal­la pandemia che, invero, non è mai finita siamo transitati direttamente, senza solu­zione di continuità, in un cupo scenario di guerra. Delle difficoltà delle famiglie si fa beffe l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, dei carburanti, delle uten­ze, ma la politica non disdegna un aumen­to della spesa per armamenti.
Verso un keynesismo di guerra.
Il conflitto in Ucraina, insomma, ci sta por­tando direttamente verso un keynesismo di guerra. La minaccia è rappresentata solo dalla Russia o ci stiamo preparando per un nuovo conflitto mondiale?
I trenta paesi del­la Nato spendono 1.100 miliardi di dollari per la difesa, mentre Cina, India e Russia insie­me (tre miliardi di persone) arrivano a mala­pena a 390 miliardi. Biden ha portato la spe­sa del Pentagono a 813 miliardi di dollari per il 2023. La Russia, nel 2021, ha stanziato per le sue forze armate 46 miliardi di dollari. Non c’è proporzione. Che poi, un confronto con il nuovo «asse del male» non si risolverebbe che con il ricorso all’atomica. Perché, allora? Sono certamente valide le parole di France­sco: «La spesa per le armi è una pazzia di cui vergognarsi». Ma per chi le produce e le ven­de non è pazzia. È guadagno, profitto, ric­chezza. Ed anche il loro impiego fa parte del gioco. Per questo, come un secolo fa, i lavo­ratori «di tutti i paesi» dovrebbero scendere in piazza e gridare forte il loro no alla guer­ra. Alla guerra in quanto tale, che vede in campo attori diretti e chi agisce per procura. È inaccettabile che i «lavoratori di tutti i pa­esi» ieri abbiano dovuto pagare il costo del risanamento delle scorribande finanziarie delle banche, poi il prezzo sociale della pan­demia, adesso il prezzo ancora più salato della guerra. I soldi e gli sforzi dei governi devono essere indirizzati al recupero della dignità del lavoro, per combattere la precarietà, per salari e stipendi commisurati al costo reale della vita, non per preparare nuove guerre. In Italia, per un nuovo patto sociale in nome dei principi fondamentali della nostra Costi­tuzione. L’ammonimento di Francesco: «Die­tro ogni attività c’è una persona umana». Sarebbe ora di tenerne conto.


[1] Luigi Pandolfi, laureato in scienze politiche, giornalista pubblicista, scrive di politica ed economia su vari giornali, riviste e web magazine, tra cui Micromega, Il Manifesto, Linkiesta, Economia e Politica. 

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