L’inverno demografico una questione scottante.
P. Montesperelli (Rocca)

L’inverno demografico una questione scottante.
Paolo Montesperelli[1] (Rocca 04/02/2024)

Il cosiddetto «inverno demografico», cioè il calo e l’invecchiamento della popolazione italiana, raggela il san­gue … di fronte a un problema che si sta arroventando. È una rivoluzione silenziosa, senza botti, clamori, barricate; eppure è dirom­pente la sua portata attuale e, forse ancor più, quella futura.
Non dare torto ai fatti.
Partiamo da qualche dato. Dagli anni ’90 fino al 2014 la quantità della popolazione in Italia è rimasta sostanzialmente stabi­le: la diminuzione degli italiani veniva compensata dall’ingresso degli stranieri. Dal 2015 il totale della nostra popolazione (italiani e stranieri) diminuisce sensibil­mente. Secondo le previsioni dell’Istat, nel 2070 saremo 10 milioni in meno; è come se ogni anno perdessimo una città come Trieste. Nell’ipotesi peggiore ci ritrovere­mo con 20 milioni di persone in meno. Diminuisce la popolazione complessiva, ma aumenta la proporzione degli anziani. Questo progressivo invecchiamento è mol­to evidente se consideriamo la classe di età più numerosa nel corso degli anni. Nel 1861 prevaleva la categoria da 0 a 4 anni di età; nel 2003 il primato passava alla clas­se 34-39 anni; nel 2023 la maggioranza ri­guarda i 55-59enni; nel 2050 probabilmen­te quella più estesa sarà la classe dei 70-74enni. Ma già prima di quella data po­tremmo scalare la classifica: potremmo non essere uno dei Paesi più vecchi al mondo, ma in assoluto il più vecchio. Perché la popolazione italiana invecchia? Per almeno due ragioni: la vita si è pro­lungata; e nascono meno bambini. Partia­mo dal primo grande processo. Viviamo più a lungo, il che, naturalmente, è un gran bene che ci rende tutti più sicuri e più sod­disfatti. Anche qui può essere utile guar­dare alle nostre spalle. Per chi nasceva nel 1861, vi era un’alta probabilità di morire intorno a 30 anni; ovviamente molti supe­ravano quella soglia, ma la mortalità in­fantile era molto diffusa. Chi nasceva nel 1921 poteva fondatamente sperare di so­pravvivere fino a 50 anni. Nel 2021 siamo passati a 82 anni. Oggi, rispetto a quanto accadeva in passato, è come se ogni anno guadagnassimo 3-4 mesi di vita in più. Las­senza di guerre, i progressi della medici­na e della qualità della vita spiegano que­sto importantissimo miglioramento. Passiamo ora al secondo grande proces­so, il calo delle nascite. Nel 1952 per ogni donna in età fertile nascevano in Italia cir­ca 2,5 bambini; nel nostro Meridione qua­si 3,5 bambini. Oggi il rapporto è dimez­zato, siamo all’1,2; inoltre dal 2004 sono praticamente sparite le differenze fra ter­ritori; sicché anche il Meridione si è alli­neato al ribasso, con tutte le altre aree ita­liane. Se nascessero 2 figli per coppia di genito­ri, il ricambio generazionale garantirebbe la stabilità della popolazione. Invece, come abbiamo visto, siamo ben al di sotto di quella soglia e ciò spiega in gran parte per­ché la nostra popolazione si riduce a gran­di passi. Un paio di altri dati conferma questo andamento: nel 1964 è nato più di un milione di bambini; nel 2021 appena 400mila, meno della metà.
Demografia, lavoro: due trappole.
Ciò sta innescando quella che gli esperti chiamano «la trappola demografica», cioè una specie di spirale in caduta: avere meno figli oggi significa meno genitori domani; il calo dei genitori determinerà la riduzio­ne del totale dei figli; quando questi pochi figli diventeranno genitori, essi genereran­no ancor meno figli e così di seguito. In­somma, se non scardineremo quella trap­pola, se non subentreranno interventi pro­fondi, gli italiani saranno sempre meno e con sempre più anziani. Gli effetti negativi dell’invecchiamento sono molti: aumentano le necessità legate alla sanità, alla previdenza e all’assistenza e ciò fa crescere il debito pubblico. A pari­tà di risorse, se lo Stato spendesse di più per gli anziani, spenderebbe meno per i giovani, che oggi rappresentano una nuo­va emergenza sociale.
Un’altra «trappola» riguarda il mercato del lavoro, che incide sullo scenario che sto richiamando. In estrema sintesi, gli occu­pati regolari versano i contributi che finan­ziano le pensioni degli anziani; ne versa­no relativamente pochi, solo perché sono molto bassi i salari, fra i più bassi di Euro­pa. Ma se non aumenterà di molto l’occupa­zione e se la popolazione continuerà a di­minuire, decresceranno anche i lavorato­ri regolari e quindi si ridurranno ulterior­mente le risorse per le pensioni. Insomma lo scenario è grigio scuro sia per i pensio­nati, nel timore di ulteriori tagli alle pen­sioni; sia nei giovani, per il rischio di esse­re oggi disoccupati e domani pensionati poveri. In alcune regioni già oggi ci sono 3 occu­pati ogni 4 pensionati. E evidente lo squi­librio. Allora bisognerebbe aumentare gli occupati e regolarizzare quelli che già la­vorano: il lavoro nero e precario sono uno spreco per la comunità, oltre a rappresen­tare una forma vergognosa di sfruttamen­to. Il nostro mercato del lavoro è avaro, sì, ma anche «maschilista», perché sfavorisce le donne: rispetto alle opportunità degli uo­mini, poche, mediamente, riescono a tro­vare un’occupazione; se vi riescono, soven­te il lavoro è meno qualificato e le possibi­lità di carriera sono più ridotte.
Qualcosa di analogo capita a tanti giova­ni. Il 23% di loro è «scoraggiato», cioè non studia più, non lavora né cerca lavoro. An­che questa è una risorsa dispersa, dilapidata: il nostro Welfare avrebbe molto bisogno di immettere nel mondo del lavoro tanti lavoratori giovani, per rispondere all’invec­chiamento progressivo e rapido della no­stra popolazione. Purtroppo alcuni dati anche recenti ci dicono che aumenta l’oc­cupazione ma non quella dei giovani.
Per riequilibrare il rapporto fra gli anziani e le altre classi di età, dovrebbero aumen­tare in maniera consistente le nascite, che invece sono in forte calo, come abbiamo visto. Su questo argomento fino a poco tem­po fa era facile incontrare giudizi trancian­ti e moralistici: «le coppie sono egoiste», «le donne non vogliono più rispondere alla loro più importante vocazione che è l’essere madri» e amenità del genere. Ora i dati resi pubblici sono talmente eclatanti da ridurre fortemente le spiegazioni semplicistiche.
Urgenze, prospettive …
In altri Paesi il calo delle nascite è stato ri­dotto solo grazie a interventi sociali ade­guati. Una seria politica per la natalità deve saper guardare molto avanti, giacché i pro­cessi demografici non possono essere inter­rotti dalla sera alla mattina e i loro effetti si riproducono in un ampio lasso di tempo prima di tornare indietro. In altre parole, dobbiamo porre in campo politiche «strut­turali», stabili nel tempo, dotate di una grande capacità programmatoria; non pan­nicelli caldi, o interventi-tampone che cam­biano col passaggio da un governo all’altro, tanto per rastrellare un po’ di consenso in vista delle prossime elezioni.
Sarebbero auspicabili vari interventi corag­giosi: politiche di supporto (non risicato) al reddito delle famiglie; politiche fiscali di sostegno alle coppie giovani; congedi geni­toriali di vario tipo; la diffusione di asili nido pubblici e di altri servizi per bambini (oggi molto scarsi, soprattutto al Sud). E poi do­vremmo smettere di frapporre ostacoli de­rivanti dal tipo di famiglia o dalla cittadi­nanza dei genitori e dei loro figli: fosse solo perché non ce lo possiamo più permettere. Però su questo scenario non si allungano solo ombre. La presenza di tanti anziani compor­ta anche alcuni vantaggi, che però spesso sono sottovalutati. Le loro pensioni, per quanto spesso magre, garantiscono entrate regolari ai pensionati stessi, ai loro figli e ai loro nipoti. Insomma, le pensioni sono un’importante forma di «welfare familiare». Un tempo essere anziani comportava mag­giori rischi di fragilità economica rispetto invece ai giovani. Ora il rapporto è invertito, non perché la situazione degli anziani sia migliorata, ma soprattutto perché quel­la dei giovani è peggiorata. Ad esempio, se consideriamo le famiglie che versano in condizioni di povertà assoluta, quelle con almeno un anziano sono il 5,6%, mentre le famiglie giovani con almeno un figlio minore sono ben il 13,4%.
Un altro vantaggio derivante dall’invec­chiamento della popolazione è rappresen­tato dall’incremento di prodotti e servizi destinati alla terza età; secondo alcuni eco­nomisti, ciò determina l’aumento del 5% annuo della nostra crescita economica. Alcuni importanti settori e attività produt­tive si giovano proprio del fatto che si estende la «silver economy». Pensiamo ad alcuni servizi oggi molto rilevanti: il turi­smo per anziani; la ristrutturazione delle case per renderle più agevoli; la mobilità assistita; la telemedicina; i centri di riabi­litazione, ginnastica o danza; la ristorazio­ne capace di garantire una migliore salu­brità degli alimenti; e molto altro ancora.
. . . e una nuova «terza età».
Ciò che più colpisce anche un osservatore distratto è il fatto che gli attuali anziani sono molto diversi da quelli di ieri e del­l’altro ieri. Oggi la loro salute è mediamente assai migliore, tanto che un settantenne di oggi è molto più giovanile di un settanten­ne di ieri. Il livello di scolarizzazione è ben più alto. L’attuale «terza età» è più esigen­te nella domanda di cultura e di prodotti (materiali e immateriali) di elevata quali­tà. Ormai non è affatto difficile trovare anziani «smanettoni», abili col computer, naviganti di lungo corso nei mari di inter­net (il 40% degli anziani usa regolarmente internet, una percentuale impensabile fino a pochi lustri fa).
Particolare non da poco: la maggiore du­rata della vita consente agli anziani di avere più tempo da progettare e investire per il futuro, non solo a favore proprio e dei pro­pri familiari e parenti; ma anche per la comunità circostante. Pensiamo al volon­tariato, all’associazionismo, alle parroc­chie, ai comitati di quartiere, ad altre isti­tuzioni basate sulla condivisione: sono tut­te occasioni che vedono una forte parteci­pazione di anziani, animati dal desiderio di contribuire al bene comune e alla de­mocratizzazione della vita civile. Come a dire: esiste un rapporto fra demografia e democrazia e tale rapporto implica anche qualche risvolto positivo.


[1] Professore ordina­rio di sociologia all’Università di Roma «La Sapien­za»

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