MENO LAVORO, PIU’ POSTI
Domenico Masi

Meno lavoro, più posti: conta la motivazione
di Domenico De Masi
in “il Fatto Quotidiano” del 13 luglio 2021

Sorprende la sorpresa con cui i giornali hanno riportato come sorprendenti i risultati di un esperimento condotto in Islanda su 2.500 tra medici, infermieri e poliziotti, secondo cui queste cavie umane, lavorando un’ora in meno al giorno e guadagnando uguale, hanno prodotto di più. Stessa sorpresa colse i ricercatori di Harvard già nel 1927, dopo un esperimento condotto con un gruppo di lavoratici della Western Electric di Chicago. Da allora in poi decine di ricerche simili hanno confermato che qualsiasi gruppo di lavoro, se sa di essere coinvolto in un esperimento organizzativo, per ciò stesso aumenta la sua produttività.
In base ai risultati dell’esperimento, imprenditori e sindacati islandesi hanno concordato la riduzione dell’orario di lavoro da 40 a 35 ore settimanali per l’86% di tutti i lavoratori di quel Paese. Ma non c’è nulla di nuovo. Come ho già ricordato più volte, secondo i dati Ocse, un francese lavora in media 1.514 ore l’anno (cioè 35 ore settimanali) e un tedesco lavora 1.356 ore l’anno (cioè 32 ore settimanali). Invece un italiano lavora 1.723 ore (cioè 40 ore settimanali). Anche per questo l’occupazione in Francia è al 70% e in Germania è al 79% mentre da noi è al 58%. Praticamente, l’italiano lavora ogni anno ben 354 ore più del tedesco, ma produce il 20% in meno. In complesso, lavoriamo 40 miliardi di ore l’anno. Se ognuno di noi lavorasse le stesse 1.371 ore di un tedesco, potremmo disporre di 5,9 milioni di posti di lavoro in più e gli occupati potrebbero
essere 28,9 milioni invece degli attuali 23 milioni. In altri termini, la disoccupazione sarebbe azzerata.
Tutto questo era chiaro già mezzo secolo fa, soprattutto a sociologi francesi come André Gorz e Guy Aznar. Nel 1977, sempre in Francia, il gruppo di studio Adret, in un rapporto significativamente intitolato Travailler deux heures par jour, aveva scritto: “La vera difficoltà per la nostra società non è quella di ridurre il tempo dedicato al lavoro ma di non ridurlo: per raggiungere questo risultato occorre pagare (il meno possibile) un esercito di disoccupati; mantenere nelle aziende una rilevante manodopera eccedente; creare posti di lavoro quale che sia la loro reale utilità; compiere importanti ricerche per rendere più fragili i beni di consumo che invece non chiedono di meglio che durare a lungo; lanciare costose campagne pubblicitarie per convincere la gente ad acquistare cose di cui non ha alcun bisogno; fare in modo di tenere il più possibile fuori della vita professionale i giovani, le donne, i vecchi e così via”.
La questione dell’orario di lavoro è nata con la società industriale e con il lavoro operaio. È nella fabbrica che in tot minuti si fabbricano tot bulloni; è con la catena di montaggio che il lavoro può iniziare simultaneamente solo quando tutti i lavoratori sono al loro posto, e deve finire simultaneamente quando il nastro trasportatore si blocca per tutti. Nella metà dell’Ottocento, a Manchester, la città più industrializzata del mondo, il 94% di tutti i lavoratori erano garzoni e operai che lavoravano fino a 15 ore al giorno per sei giorni la settimana. Poi, con i ritmi scanditi dal cronometro di Taylor, il tempo e la velocità diventati condizioni dell’efficienza, l’efficienza è funzionale al profitto e perciò gli imprenditori resistono a qualsiasi riduzione di orario. Ciononostante, nel corso degli anni, l’orario di lavoro è diminuito incessantemente per effetto congiunto del progresso tecnologico, dello sviluppo organizzativo, della globalizzazione e delle lotte sindacali. Nell’anno 1891 gli italiani erano circa 30 milioni e lavorarono per 40 miliardi di ore. Cento anni dopo erano diventati quasi il doppio, 57 milioni, ma lavorarono solo 40 miliardi di ore. Eppure, lavorando 30 miliardi di ore in meno, produssero 13 volte di più. Gli economisti chiamano jobless growth questo fenomeno: sviluppo senza lavoro.
Ma il progresso non si è fermato: informatica, stampanti 3D, nuovi materiali, intelligenza artificiale, ecc. hanno modificato profondamente l’organizzazione del lavoro: ormai gli operai non superano il 30% di tutta la popolazione attiva, impiegati e creativi rappresentano il 70% e si riesce a produrre sempre più beni e servizi con sempre meno lavoro umano. Se non si riduce l’orario, i disoccupati aumentano a dismisura.
L’attività cognitiva non risponde a nessuna delle regole con cui Taylor e Ford imbrigliarono la fatica fisica nella fabbrica industriale. Oggi, ai fini della produzione, non è tanto l’orario che conta, né il luogo in cui si lavora, ma è la motivazione. Se lo hanno capito gli imprenditori islandesi si può sperare che, prima o poi, lo capisca anche la Confindustria.

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