Non andremo più “a messa”… andremo all’incontro…
di Jean-Luc Lecat
in “www.garriguesetsentiers.org” del 30 settembre 2020 (traduzione: www.finesettimana.org)
Onnipresenza (e onni-rigidità!) della messa nel mondo cattolico…
Andare a messa ogni settimana era un obbligo sotto pena di peccato mortale. E andare a messa resta un segno caratteristico del cattolicesimo.
Le occasioni di messa sono molteplici, anche se lo svolgimento della messa è praticamente invariato, fisso, definito da codici molto severi dove l’improvvisazione e la spontaneità della vita non hanno quasi nessuno spazio.
Certo, si possono fare delle aggiunte, adattamenti alle diverse situazioni, ma la cornice e le parole restano sempre le stesse dall’inizio alla fine.
La “messa” è come un “passe-partout” della società cattolica… nessun evento importante può essere fatto senza la messa che lo accompagni: la nascita, la vita, l’amore, la morte, la vita privata e spesso anche la vita pubblica. Mi direte che tutto questo non è più attuale, dato che a messa ci si va sempre di meno! Ed è vero! Almeno in Occidente…
Ma quando si tratta di un avvenimento importante della vita, nonostante tutto, si vorrebbe proprio una “messa”… che sia per un matrimonio o per un funerale, ma anche per una commemorazione o un anniversario…
Ma questo bisogno di “messa” non è fuori posto? Non è terribilmente lontano dalla fede in Cristo? Non è vissuto da chi lo richiede come una festività ben organizzata, senza rischi, perché molto inquadrata nel suo svolgimento praticamente fisso, un momento per dare solennità, adattabile ad una situazione particolare grazie all’aggiunta di alcune parole scelte e, per di più, con una piccola aura di mistero un po’ magica? Ma una cosa così non è forse la caricatura di un incontro di stile evangelico e di vita condivisa?
Anche se posso ammettere, certo, che anche in quelle celebrazioni possa passare lo Spirito…
Nelle “messe” si compie un rito molto organizzato e intoccabile: si comincia con l’invito a riconoscere che siamo, per definizione, peccatori e quindi cattivi, e che dobbiamo chiedere pietà; poi si ascoltano due o tre brani biblici che vogliono dirci qualcosa di Dio e di Gesù: dovrebbero essere il nostro cibo per la settimana o per la circostanza celebrata quel giorno. Segue poi l’ascolto, senza possibilità di risposta, del commento di un prete (uno dei momenti meno formattati, ma molto spesso i più formattanti perché senza diritto di risposta o di modulazione, eventualmente solo criticati all’uscita!). E tale commento è di nuovo stato definito da un organismo vaticano come l’unico autorizzato durante l’eucaristia: “I fedeli laici possono predicare in una chiesa ma in nessun caso potranno pronunciare l’omelia durante l’eucaristia”! Poi il celebrante proclama la preghiera e riprende i gesti e le parole di Gesù nel suo ultimo pasto. In seguito, siamo invitati a ricevere il pane, corpo di Gesù, ma solo se siamo conformi alle leggi! Alla fine, presumibilmente fortificati da tutto questo rito compiuto secondo le norme e in regola con il diritto canonico e le indicazioni vaticane, eccoci rimandati nel mondo della vita quotidiana, quello in cui siamo confrontati a tanti problemi e a molteplici modi di affrontare la vita…
Ite missa est, Andate, la messa è finita.
In questo rito della “messa”, dov’è che l’assemblea esprime le sue richieste, a parte la preghiera universale? dov’è l’incontro, a parte il timido gesto dello scambio di pace? dov’è la condivisione, a parte il pane religiosamente distribuito? Dove si realizza, se non forse nel segreto dei cuori, quel momento rinvigorente, ricco di vita e di comunicazione, che potrebbe far pensare ad un lieto momento vissuto insieme e dare lo slancio sufficiente per ripartire nel vortice della vita?
Vorrei tanto che non si parlasse più di “messa”, perché questa parola rappresenta, nelle nostre teste, in quelle dei nostri contemporanei e, pare, anche in quelle di molti celebranti, una cosa preconfezionata, che non è affar nostro, ma solo dei preti! Preferirei che non dicessimo più “andare a messa”. Perché non diciamo invece: “abbiamo un appuntamento”, “andiamo all’incontro”? Andiamo a preparare la nostra festa di domenica prossima, andiamo a vivere “il nostro ritrovarci domenicale”, andiamo a condividere la gioia di quella coppia che si sposa, il dolore di quella famiglia in lutto, l’allegria di quei giovani che vogliono celebrare la vita. È solo un modo di giocare con le parole? È una semplice questione di vocabolario? o non potrebbe essere un reale cambiamento di mentalità e di atteggiamento? Ogni volta che ci ritroviamo, c’è un incontro che possiamo vivere, ci uniamo a persone alla ricerca della vita, veniamo ad ascoltare, a tentare di comprendere e di reagire alle parole di Gesù, a quelle di donne e di uomini di Dio che lo hanno preceduto, a quelle di amici che lo hanno scelto come maestro di vita… Insieme, veniamo a cercare di comprendere, di inserirci. Ci saranno tempi di silenzio, momenti di ammirazione, istanti di preghiera, condivideremo un pasto e spezzeremo il pane e berremo il vino come ha fatto Gesù un tempo con i suoi amici e insieme metteremo in comune, nel tempo che ci sarà dato, gioie, dolori, preoccupazioni, interrogativi, progetti e passioni, speranze e scoraggiamenti, le nostre vite, insomma! Credo che dobbiamo completamente riconsiderare e reinventare questo tempo di incontro tra di noi e con tutti coloro che avrebbero voglia di unirsi a noi. Mi sembra indispensabile rompere quel rito, fisso per definizione, che chiamiamo “messa”. Dobbiamo continuamente ritrovare la vita, riimmaginare il nostro modo di stare insieme, di nutrirci di Gesù e della sua parola. Assumiamoci il rischio di osare vivere un tempo reale di vita, attorno a quello che è il cuore della nostra fede, perché questa fede diventi viva nel cuore delle nostre vite. Facciamo un sogno! E se questo incontro, dal ritmo da definire, diventasse un vero pasto condiviso, indipendentemente dalle circostanze? Un vero appuntamento di persone in carne ed ossa, con tutto il peso della loro umanità, un momento nutriente, rinvigorente e fonte di gioia…