POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO
Proviamoci davvero.
Fiorella Farinelli (ROCCA 1 maggio 2022)
Politiche attive del lavoro, che cosa sono e perché sono così importanti? I primi passi si stanno finalmente facendo anche in Italia. Con il decreto di dicembre sul piano Gol – Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori – finanziato con la bella cifra di 4,4 mld e, poco dopo, con la ripartizione tra le Regioni di una prima tranche di 880 ml per il decollo di specifici piani operativi. Con due obiettivi principali, ogni giorno più impellenti. Il primo è inserire o reinserire nel lavoro, entro il 2025, 3 milioni di senza lavoro tra disoccupati e inattivi, di cui 800mila da coinvolgere anche in formazione (per il digitale, ma non solo). Il 75% tra disoccupati di lunga durata, giovani fuori dallo studio, dal lavoro e dalla ricerca del lavoro, donne, over 55, e partendo da chi è titolare di indennità di disoccupazione, cassa integrazione, reddito di cittadinanza. Il secondo, strettamente funzionale al primo ma con tempi così lunghi che si dovrà ricorrere anche alle agenzie private di incrocio domanda-offerta, è rendere finalmente efficienti i nostri Centri per l’impiego, da cui non passa oggi più del 7% degli inserimenti lavorativi (succede perché i Centri sono inefficienti o perché il familismo italiano preferisce il fai-da-te del passaparola? Ecco un bel caso di discussione se sia nato prima l’uovo o la gallina). Il tutto sullo sfondo di due megatransizioni non dilazionabili, la digitale e l’ambientale, e dei due spaventosi «cigni neri» della pandemia e del ritorno di una guerra devastante in Europa. Quanti e chi saranno quelli che perderanno il lavoro e che, per ritrovarlo, dovranno nei prossimi mesi e anni riconvertirsi, e in che direzione? E come si fa con i tanti senza qualificazione e con livelli di istruzione così bassi da rendere problematico il rientro in formazione? Pagheremo, è certo, l’insistente assenza di un sistema per l’apprendimento permanente, e anche le criticità della formazione continua per gli occupati.
Oltre le politiche «passive».
In mezzo a tante incertezze, conforta che per la prima volta un robusto piano di politiche attive ci sia e le risorse per avviarlo pure. E però, sebbene il pessimismo sia un lusso da riservare a tempi migliori, è ragionevole chiedersi se si riuscirà a ribaltare, o almeno a sgretolare progressivamente il macigno sedimentato in Italia da decenni di politiche unicamente passive. Fatte di dispositivi di compensazione della povertà derivante dal non lavoro (che in molti da sempre e ancora oggi continuano a chiedere solo di estendere e prorogare il più possibile) e non anche di servizi e azioni capaci di riavvicinare il prima possibile al lavoro, a un buon e dignitoso lavoro, chi l’ha perduto e chi non l’ha mai avuto. Politiche «passive», appunto, nel senso che rendono passivi molti dei destinatari. Quindi disinteressati o incapaci di attivarsi per una via d’uscita. Quindi esposti al rischio di accontentarsi della triste convenienza a campare così, tra rimedi compensativi a termine, che in Italia cambiano da un governo all’altro e da un’area territoriale all’altra, e il ricorso a lavori e lavoretti in nero. Dietro, si sa, c’è un interrogativo grande come una casa, che riguarda il significato e le finalità stesse del welfare del lavoro. Perché da politiche ispirate alla sola tutela deriva, soprattutto per i più fragili, la rinuncia e la dipendenza dalle politiche nazionali e locali, mentre le altre, quelle attive, ne promuovono la fiducia in sé, la crescita professionale, l’autonomia, la dignità. Ma il nostro Paese, i politici, i sindacati, le imprese, l’opinione pubblica, tutto il sistema che gira attorno alle politiche passive, quale delle due strade preferisce, e quanto è disposto a cambiare perché la seconda prevalga sulla prima? E inoltre in cosa consistono davvero le politiche attive? Di che cosa sono fatte in tutti i paesi dell’Europa settentrionale e continentale in cui la disoccupazione di lunga durata viene grazie ad esse contrastata assai meglio che da noi, i tempi di passaggio da un lavoro all’altro vengono accorciati, la qualificazione e la riconversione professionale vengono assicurate da un sistema formativo per adulti dentro e fuori dal lavoro? I Neet ci sono ovunque in Europa, ma noi ne abbiamo l’inquietante primato, mentre siamo in fondo alle graduatorie non solo per numero di non diplomati e di non qualificati, ma anche per tassi di partecipazione degli adulti alla formazione continua e all’apprendimento permanente. Col paradosso che in tanti campi del lavoro privato e pubblico mancano i profili professionali giusti e che certi concorsi non trovano candidati o ne trovano di così impreparati che non tutti i posti in palio vengono coperti. Cosa si può «copiare» dai paesi più virtuosi? Storie esemplari, ma non eccezionali, di ciò che accade da decenni non lontano da noi, chiariscono cosa dovremmo fare, da subito, nell’attuazione del piano Gol, nelle misure connesse e previste dal Pnrr (il piano Nazionale delle Competenze degli adulti e lo sviluppo del «modello duale» nella formazione professionale) e nelle politiche nazionali (la cassa integrazione, l’indennità di disoccupazione, le pensioni di invalidità, il reddito di cittadinanza, i mille «bonus» che vanno e vengono secondo le stagioni politiche). Una di queste storie l’ha recentemente raccontata, proprio a questo fine, Pietro Ichino, professore di diritto del lavoro, in passato dirigente dei metalmeccanici della Cgil e degli uffici legali di importanti strutture sindacali, poi sempre più in dissenso da quel mondo proprio a proposito di politiche del mercato del lavoro. Vale la pena di riportarla, questa storia che parla da sè (Una storia vera di politiche attive del lavoro – Lavoce.info).
La storia di Gavino Nieddu e il modello tedesco
Di che si tratta? All’inizio degli anni Settanta, racconta il professore, Gavino Nieddu, barbiere, emigra dalla Sardegna in Germania, incoraggiato dalle notizie sulle occasioni di lavoro e sui livelli delle retribuzioni che gli arrivavano dai compaesani partiti prima di lui. Tutto va liscio fino al 1977 quando un incidente stradale gli provoca una grave lesione permanente che gli impedirà per sempre di lavorare in piedi. In attesa che trovi un altro lavoro compatibile con la sua disabilità, gli viene assegnato un trattamento di disoccupazione che vale due terzi il suo reddito da lavoro precedente. Tempestivamente Gavino viene convocato da un’ apposita agenzia pubblica che gli fa una lunga intervista su quel (poco) che ha studiato da ragazzo, quello che sa fare, quello che gli piacerebbe fare tenendo conto della sopravvenuta disabilità. Gli indica i settori in cui le imprese hanno più difficoltà a trovare lavoro qualificato e specializzato, spiegandogli che è in quella direzione che gli conviene indirizzarsi. Se vuole continuare a godere del trattamento di disoccupazione, infatti, deve scegliere una riqualificazione che abbia una ragionevole probabilità di successo. Se lo farà, l’agenzia finanzierà tutte le spese della sua formazione aggiungendo all’indennità di disoccupazione un assegno di formazione fino a copertura totale della sua ultima retribuzione. Tra le opportunità segnalate, Gavino sceglie quella di diventare ottico. Poiché la scelta viene approvata dall’agenzia, gli viene fatto un formale contratto che lo vincola a seguire un programma formativo di tre anni, prima corsi di tedesco, matematica, fisica, poi di specializzazione. Gavino si dedica con impegno e dopo tre anni consegue la qualificazione. Dato che non riesce immediatamente a trovare un lavoro (anche in Germania, evidentemente, le imprese hanno bisogno di essere «incoraggiate» ad assumere persone con disabilità), l’agenzia offre per assumerlo un contributo del 75% del costo del lavoro e dei contributi previdenziali per i primi 4 mesi di lavoro che va a calare fino ad azzerarsi entro il sedicesimo mese. In questo modo Gavino ottiene il lavoro, in dieci anni si specializza ed affina la sua professionalità fino ad ottenere un’offerta di lavoro molto vantaggiosa in Lussemburgo dove si trasferisce. Qualche anno dopo utilizza le sue competenze – e il gruzzolo che ha risparmiato – per tornare in Sardegna e aprire lì un suo negozio di ottica.
La ricerca attiva
Un happy end a cui si potrebbe obiettare che un trattamento del genere costa molto, forse troppo per un Paese indebitato come l’Italia. Tutto vero, risponde Ichino, ma quanto costerebbe allo Stato italiano una pensione di invalidità a vita? E quanto gli sgravi fiscali, un bonus di sostegno all’affitto, le riduzioni o esenzioni tariffarie per la scuola e l’università dei figli, l’assegno di accompagnamento, e le altre agevolazioni in questi casi erogate dalle politiche nazionali e degli Enti Locali? Senza contare – ma parlando di welfare si dovrebbe – il costo umano di una condizione di dipendenza e di marginalità sociale e lavorativa di una persona che ha ancora risorse personali da sviluppare per una vita dignitosa e per un lavoro gratificante. Una storia perfetta per illustrare di che cosa si parla quando si parla di politiche attive. Tanto più in quanto, nel caso raccontato, le difficoltà soggettive sono massime, non solo perché Gavino è per la sua disabilità oggettivamente escluso da una gran parte delle opportunità lavorative ma anche perché ha avuto poca istruzione iniziale e, in quanto emigrato da un altro Paese, non padroneggia ancora la lingua del Paese di accoglienza. Dalla storia di Gavino risulta infatti evidente che il successo del suo percorso deriva in primo luogo dalla capacità del Centro di prendere in carico il lavoratore fragile, di costruire non «per» ma «con» lui un progetto convincente, di attivare una formazione integrata di competenze di base (tedesco, matematica, fisica) e di competenze professionali – un’opportunità che manca quasi del tutto nei nostri sistemi di formazione per gli adulti -, di negoziare con l’impresa le condizioni dell’assunzione. Di coordinare, insomma, ritagliandole sui bisogni formativi di chi viene preso in carico, l’insieme dei dispositivi previsti, finalizzandoli alle politiche attive. Una distanza incolmabile, nella Germania di cinquant’anni fa e ancor più da quella di oggi, da ciò di cui disponiamo nel nostro Paese, dove tra il servizio che tratta il lavoratore, l’ente che eroga l’indennità, il gestore della formazione professionale, le scuole di istruzioni degli adulti regnano distanza e incomunicabilità (anche informatica). E dove i Centri per l’impiego non sono dotati di operatori in grado di prendere in carico, accompagnare, sostenere e, cosa tutt’altro che secondaria, le imprese non si fidano delle selezioni e valutazioni dei Centri. Col risultato che, una volta erogato un dispositivo di sostegno, è alla persona che viene affidata la responsabilità della «ricerca attiva». Qualcuno ci riesce, ma la maggioranza non ce la fa.
C’è un’altra storia, questa volta una fiction, che descrive magnificamente il tragico percorso di solitudine e di impotenza di un lavoratore lasciato da solo a fronteggiare le difficoltà opposte da un Centro per l’impiego burocratico e disumano. L’ha raccontata Ken Loach, un regista militante molto vicino ai drammi del lavoro nell’Inghilterra del dopo Thatcher, nel film «Io Daniel Blake» del 2016, Palma d’oro al Festival di Cannes. Il protagonista è un abilissimo carpentiere di mezza età, anche lui impossibilitato a continuare il suo lavoro dopo un infarto, costretto a una «ricerca attiva» di un’altra opportunità lavorativa che deve essere svolta obbligatoriamente per via unicamente digitale, sebbene nessuno gli insegni l’uso del computer e nonostante lui sia in grado di trovarla contattando direttamente le aziende. Finirà stroncato dallo stress nel bagno del Centro per l’impiego l’artigiano dalle mani (e dal cuore) d’oro, simbolo della crudeltà sociale del sistema, anche quello delle politiche attive. Bisognerebbe, nell’attuazione di Gol, prendere sul serio le indicazioni che vengono dalle due storie, quella vera e quella verosimile. Cosa vuol dire prendere in carico, cosa significa personalizzare i percorsi, qual è il ruolo dell’orientamento e della formazione, qual è il mandato dei Centri per l’impiego, di quali figure professionali deve essere dotato? Non bastano le risorse, ancorché ingenti, a costruire politiche sociali intelligenti ed efficaci, a mettere in campo un welfare degno di questo nome. Ce la faremo?