Dappertutto si sta già gridando «SALVIAMO IL NATALE». E alcuni pensano alle festose e affettuose tavolate familiari; altri pensano all’economia del commercio e del turismo che sono ormai allo stremo con persone e famiglie che stanno scivolando verso povertà o fallimenti. Alcuni pensano ai giovani dei percorsi scolastici, dopo aver scoperto che la scuola non solo insegna ma anche educa e forma. Il mio primo pensiero e la mia condivisione concreta e solidale è per tutti loro, con eccezione dei negazionisti e dei tartufai di consensi e voti. E se qualche apertura verrà dal Governo, spero che non sia il “liberi tutti” della scorsa estate che ci ha regalato questa seconda ondata che ha portato al totale di 51.306 morti in Italia, ad oggi. E penso a loro, povere creature decedute in circostanze di drammatica asfissia mortale e affettiva; e penso alle oltre 51.000 famiglie buttate in un lutto anticipato, caotico, procurato da incolpevoli o colpevoli leggerezze comportamentali. Nel mondo? Un milione e mezzo di morti colpiti da questo invisibile cecchino interclassista che spara a vista senza distinzione di classe sociale, religione, razza, nazione. E forse, domani, potrebbe toccare a me. Salviamo dunque la vita. Evitare la terza ondata in gennaio e forse la quarta in primavera sarà un modo per rendere grazie alla vita e al Signore della vita celebrando il rispetto del limite come un’opportunità e non una maledizione. Adamo ed Eva avevano una foresta a disposizione con il limite di un solo albero da rispettare. Ma quel limite faceva gola, come tutto ciò che viene sottratto al nostro appetito bulimico di possesso. C’eravamo abituati al “voglio, posso, comando” e ci siamo trovati denudati, fatta eccezione di quella parte di volto coperto di cui non possiamo più vedere il sorriso né baciare le calde guance. Salviamo il salvabile nella vita, nei rapporti, nella fede. Mons. Franco Moscone, arcivescovo di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo dice: «Dio è nella realtà e soprattutto nella realtà ci siamo noi. Di fronte a questa situazione di pandemia non ci tocca salvare il credo ma i credenti, non ci tocca salvare la pratica ma i praticanti. Sarebbe come dire che come pastore non vado alla ricerca delle pecore smarrite, non cerco di proteggerle ma mi accontento di proteggere i libri che studiano la pastorale o la teologia».(Famiglia cristiana, 18/11/2020).
Spero che il Papa sposti la festa dell’Incarnazione del Signore nella data del 25 gennaio 2022. Tanto si sa che Gesù non è nato il 25 dicembre – che è una data fittizia – e che la data più importante è quella della Pasqua. Tutte feste, comunque, da celebrare prima nel silenzio che nella caciara, prima in assemblee disciplinate che negli assembramenti scriteriati, prima presso la tavola domestica che in cattedrali paludate o piazze rockettare. Salviamo i limiti del Natale e il limite ci salverà.
Faccio dono, in appendice, di una interessante meditazione di don Aldo Antonelli.
Don Augusto Fontana
Il viaggio al rovescio di Dio
Aldo Antonelli (ROCCA 15 dicembre 2018)
Due ricordi che ci servano da pista sulla quale intrecciare una riflessione/meditazione sul Natale.
- Alla fine del novecento un cittadino americano agnostico si appellò alla Costituzione degli Stati Uniti, la quale non prevede feste religiose nel calendario nazionale, e chiese la soppressione del Natale come giornata festiva. La Corte Suprema, dopo lungo esame, respinse l’appello, sentenziando che già da tempo il Natale aveva cessato di essere una festa religiosa!
- Circa trenta anni fa Marco Lodoli scrisse un romanzetto anarchico[1], di cui non ricordo il titolo, nel quale i protagonisti erano tre giovani libertari e ingenui che avevano della politica un’idea tutta poetica. La loro prima azione fu quella di rubare il Gesù Bambino dal grande presepe di piazza San Pietro. «Secondo le loro menti bizzarre bisognava – a detta dell’autore stesso – simbolicamente interrompere quel ciclo che ogni anno a Natale festeggia la nascita del bambino divino e a Pasqua poi lo crocifigge». E aggiunge: «Bisognava liberare il neonato da un destino feroce, mandarlo a giocare con gli altri bambini».
Prendiamo questa «parabola» come filigrana attraverso la quale contraddistinguere ed individuare la particolarità del discorso cristiano che, con l’Incarnazione, si discosta da quello religioso per rivestire i panni della «Profanità» e della «Laicità».
Dio, in Gesù Cristo, esce dalla solitudine in cui la religione lo ha imprigionato, per «mettere la tenda tra gli uomini», per identificarsi con l’uomo, con la sua precarietà, la sua mondanità e, appunto, la sua «pro-fanità», nel senso etimologico del termine[2]. Non l’uomo imbalsamato dentro il tempio del potere e dell’avere; ma l’uomo nella sua nudità, per il quale «non c’è posto in albergo». Non quindi il Natale come «Festa» (religiosa o laica, poco conta!), ma il Natale come dimensione di vita quotidiana. Contro la tendenza, ricorrente e naturale, dell’uomo a consacrare le cose, sottraendole all’uso comune e riservandole alla divinità, il Dio di Gesù Cristo si «sconsacra» diventando uomo comune e compagno di viaggio. La comunione e non la separazione; la condivisione e non l’appropriazione; il darsi e non l’accaparrarsi. «Prendete e mangiate; prendete e bevete; ecco: questo sono io … ». Questo coinvolgimento di Dio nella storia dell’uomo, che è anche un capovolgimento teologico, questo suo frammischiarsi nelle vicende umane è liberante ma anche molto impegnativo per noi credenti, perché è alla base di una consapevolezza per la quale Gesù Cristo non è solo un nome proprio, ma anche un nome comune; non sta ad indicare solo una persona ma anche un programma per cui la sua immanenza non diventa prigionia, così come la sua trascendenza non costituisce evasione. I nomi comuni di Dio, allora, letti nel versante della nostra contingenza, sono molti: Pace, Amore, Giustizia, Servizio, Condivisione e altri ancora. La loro residenza è là dove l’uomo mette piede, non certamente sui troni, questi luoghi osceni nei quali, per paura e per pigrizia, i potenti amano relegare i sogni degli uomini perché restino tali. I troni creano distanza ed incutono soggezione; è per questo che la «deposizione dei potenti dai troni», così come canta la Donna del Magnificat, è un atto liberatorio che solo un Dio detronizzato può compiere. Ed è per questo che tutti gli intronizzati tentano di rimettere sul trono i loro idoli: Pace o Libertà che siano, Democrazia o Giustizia.
«Stiano lì, in alto, sul trono delle utopie!», ci dicono. Perché da quella altitudine sarà difficile che possano cortocircuitare le politiche belliciste o le economie disparitarie. «Stiano lì, lontano, nei sogni delle anime imbelli!», ci ripetono. Perché in questa lontananza sarà più facile travisare le strategie imperiali e battezzare con nomi capziosi e imbrogli linguistici le mille realtà di violenza.
Per i detentori del potere un Dio vicino fa paura ed una pace a portata di mano mette imbarazzo. L’evangelista Matteo narra che alla notizia della nascita del Messia «il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme». Loro, i grandi, amano pregare un Dio lontano e invocare una pace che voli alto. Ma noi sappiamo che, da quando Dio ha posto la sua tenda tra noi, la vera pace cammina con i piedi dei Francesco, non vola sulle ali dei Condor.
[1] Marco Lodoli, Grande circo invalido, Einaudi, 1993 (ndr)
[2] Fuori dal tempio (ndr)