DIRITTO ALLA SALUTE. In Italia abbiamo un problema
Luigi Pandolfi (ROCCA 1 maggio 2023)
Lo scorso 1 ° aprile, a Milano, si è svolta una manifestazione in Piazza Duomo per «per la salvezza del Sistema Sanitario Nazionale e per il diritto alla salute». L’evento, promosso da 60 organizzazioni, tra associazioni e sindacati, ha visto la partecipazione di oltre 5mila persone. Sotto il palco, una scritta molto eloquente: «La salute non è una merce». Esiste un «problema sanità» nel nostro Paese? Evidentemente, sì. La pandemia ha fatto letteralmente deflagrare le criticità del sistema, da anni sottoposto a duri picconamenti da parte dei governi, sia centrali che regionali, in nome di una falsa equazione tra efficienza e mercato, ovvero tra innalzamento della qualità dei servizi e privatizzazione degli stessi. «Al centro dell’iniziativa – ha dichiarato Vittorio Agnoletto dell’Osservatorio salute – ci sono tutte le rivendicazioni che abbiamo elaborato in questi anni cruciali, in cui sono esplose in maniera drammatica le gravi inefficienze del servizio sanitario pubblico, depauperato e mortificato da 30 anni di scelte dissennate. Le istituzioni, le regioni e i privati ci trattano come clienti, che si aggirano indecisi tra le bancarelle, clienti da ‘pescare’, da sfruttare, non persone da curare e riportare in salute. Con questa logica la prevenzione scompare perché non produce profitto. Non possiamo consentire che questo accada: la prevenzione, la cura e la riabilitazione sono tutte funzioni alla base del servizio sanitario pubblico e l’accesso universalistico è l’unico che garantisce che la salute sia un bene collettivo». Ecco: depotenziamento della sanità pubblica a vantaggio di quella privata, insufficienza se non mancanza assoluta di politiche di prevenzione, inadeguatezza della rete sanitaria di prossimità. Un quadro preoccupante, nel quale solo chi ha i soldi ormai può curarsi adeguatamente.
Sempre più privato, malati ridotti a consumatori.
Ne sono prova tangibile le prestazioni erogate dai medici ospdalieri al di fuori del normale orario di lavoro. La cosiddetta «attività intra-moenia»: strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale utilizzate privatamente, e per prestazioni a pagamento, dai medici che vi operano. Hai bisogno di una visita specialistica? Mesi o addirittura anni di attesa per la prestazione in regime di servizio pubblico, che si riducono a pochissimi giorni, addirittura al giorno dopo, se si accetta di aprire – potendolo fare – il portafoglio. E sappiamo quanto sia importante il fattore tempo per prevenire malattie gravi o scongiurare che le stesse abbiano un decorso infausto o fatale. Ma non è tutto. Il Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), per gli indigenti, offre ancora una certa gamma di servizi gratuiti (per altri è prevista una sorta di compartecipazione). Ci sono aree, nondimeno, dove vige una sorta di monopolio del privato. Si pensi all’assistenza odontoiatrica. Qui i soldi sono tutto. Senza, non c’è di fatto accessibilità alle cure. Cosa significa tutto questo in un Paese dove il 25% della popolazione è a rischio di povertà o di esclusione sociale e dove i poveri assoluti conclamati sono ormai poco meno di 6 milioni? Un tradimento della Costituzione. E, manco a dirlo, uno stravolgimento dei principi che stanno alla base della legge 833 del 1978, quella che ha istituito il Sistema sanitario nazionale. Di che principi parliamo? Universalità, uguaglianza ed equità. «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio», si legge all’art. 1 di detta legge. Tutto ciò che negli ultimi trent’anni, sull’onda della (contro) rivoluzione neoliberale, è stato ridotto a mero simulacro. Prima il profitto, poi la persona. E il malato che viene ricondotto alla categoria generale e uniformante di consumatore. Cos’è il consumatore nella teoria economica dominante, detta anche «neoclassica»? Colui che deve massimizzare la soddisfazione dei suoi bisogni, tenuto conto del vincolo rappresentato dal proprio reddito. La risposta al perché tanti italiani, oggi, sono costretti a scegliere tra curarsi e mangiare o pagare le bollette. La salute messa allo stesso livello di altre merci.
Questione di paradigma, nel quale è insita l’idea secondo cui anche nella sanità lo Stato deve risparmiare, ridurre il suo intervento finanziario. Stando a uno studio recente della Fondazione Gimbe, dal 2010 al 2019 il definanziamento della sanità pubblica italiana è stato di 37 miliardi. Vi hanno concorso governi di centrodestra e centrosinistra, oltre a quelli «tecnici». Tra le altre cose, ciò ha significato ancora più tagli ai posti letto per pazienti acuti, che, dal 1980 ad oggi, si sono ridotti complessivamente di quasi un terzo (da più di 500mila a meno di 200mila). Tagli alle strutture pubbliche, drenaggio di risorse da parte delle cliniche private, che hanno privilegiato, ovviamente, i settori a più alta redditività. Diagnostica, alta chirurgia, riabilitazione, a scapito delle emergenze-urgenze, delle terapie intensive, degli interventi di primo soccorso, della medicina territoriale, della rete del 118. La politica dei tagli, unita alla follia del numero chiuso applicato alle facoltà di medicina, ha determinato inevitabilmente una scarsità endemica di medici e infermieri. Le ultime stime parlano di una carenza di 40mila medici e di 100mila infermieri nel nostro Paese. Un dato che si spiega anche con la fuga dei nostri operatori sanitari verso altre nazioni europee: 180 mila in vent’anni. Un dato enorme, che ha una semplice spiegazione: ricerca, da parte dei giovani, di maggiore stabilità lavorativa e di remunerazioni migliori di quelle offerte in Italia. Non tutti i medici, nel nostro Paese, godono dei privilegi del sistema. Ci sono differenze tra un territorio e un altro, ma soprattutto tra vecchie e nuove generazioni. Ancora oggi, il 70% dei medici e dei ricercatori, italiani e di origine straniera, che operano nelle nostre strutture pubbliche o nelle cliniche private, è da considerarsi precario.
Il Pnrr e la spada di Damocle dell’autonomia differenziata.
Nemmeno la pandemia ha smosso più di tanto le acque. E il Pnrr, come si evince dalla cronaca di questi giorni, anche su questo versante non sta producendo i risultati sperati. Si faranno la Case e gli Ospedali di Comunità? Sarà realizzata la cosiddetta Rete di prossimità, col supporto della telemedicina? E l’innovazione, la ricerca, la digitalizzazione del Ssn? Staremo a vedere. Per adesso il dibattito politico è concentrato sul rischio che i soldi del Recovery fund vadano addirittura persi. Non c’è discussione adeguata nei territori su questo argomento. Sindaci e presidenti di regione sembrano incapaci di comprendere la posta in gioco, mentre anche con la loro complicità, ovvero grazie alla loro inerzia o per via della loro resistenza blanda, sta facendo passi in avanti lo scellerato disegno leghista della cosiddetta «autonomia differenziata». Già adesso esistono «differenze» marcate tra i diversi sistemi sanitari regionali. La sanità calabrese non è quella veneta o emiliana. Per quanto i processi di privatizzazione abbiano colpito trasversalmente il diritto alla salute da un capo all’altro del Paese, non c’è dubbio che nelle regioni meridionali lo stesso sia spesso del tutto negato. In tutto il Paese, pertanto, servirebbe un ritorno alla sanità pubblica universale, con un ruolo predominante dello Stato, ma nel Mezzogiorno anche maggiori investimenti per recuperare il gap attuale con le regioni più ricche del nord. Si parla invece di «Livelli essenziali di assistenza» (Lea). Che significa? Una base minima per tutti, poi chi ha più risorse fa meglio degli altri. D’altro canto, benché adesso per opportunità politica non se ne parli, al fondo del disegno leghista c’è sempre l’idea secondo cui le tasse che si pagano in un dato territorio devono rimanere, in tutto o in parte, nel territorio stesso. Un’idea balorda, ma che tornerà prepotentemente un minuto dopo che il lombardo-veneto avrà attenuto la competenza esclusiva sulle materie per le quali è stato possibile chiederla. A cominciare dalla sanità, dove la polpa è decisamente più spessa.