Se la Parola di Dio diventa rara.(Correggere il sapore)
di Lidia Maggi (da ROCCA 8/99)
2 Re 4, 38-44.
Eliseo tornò in Gàlgala. Nella regione imperversava la carestia. Mentre i figli dei profeti stavano seduti davanti a lui, egli disse al suo servo: «Metti la pentola grande e cuoci una minestra per i figli dei profeti». Uno di essi andò in campagna per cogliere erbe selvatiche e trovò una specie di vite selvatica: da essa colse zucche agresti e se ne riempì il mantello. Ritornò e gettò i frutti a pezzi nella pentola della minestra, non sapendo cosa fossero. Si versò da mangiare agli uomini, che appena assaggiata la minestra gridarono: «Nella pentola c’è la morte, uomo di Dio!». Non ne potevano mangiare. Allora Eliseo ordinò: «Portatemi della farina». Versatala nella pentola, disse: «Danne da mangiare alla gente». Non c’era più nulla di cattivo nella pentola. Da Baal-Salisa venne un individuo, che offrì primizie all’uomo di Dio, venti pani d’orzo e farro che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma colui che serviva disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Quegli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: Ne mangeranno e ne avanzerà anche». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore.
Tempi di carestia e di abbondanza caratterizzano la storia biblica e forse anche la nostra storia. Tempi in cui il cibo è prezioso perché raro, altri in cui abbonda. Così come il cibo anche la Parola di Dio in alcuni tratti della storia sacra sembra abbondante, in altri invece scarseggia, è quasi assente. C’è abbondanza di Parola di Dio nelle storie dei patriarchi, nell’esperienza dell’esodo, del Sinai, del Deserto. Dio diventa più parsimonioso di Parola nel periodo dei giudici e dei re. E’ silente con Saul, eroe tragico della storia sacra e con Giobbe che lo cerca disperatamente. Oggi le parole non sono rare. Le si pronuncia, le si ascolta, le si scrive dovunque. Nasce allora il problema di distinguere la Parola di Dio dalle mille parole umane. Problema che di per sé presenta già un paradosso: la Parola di Dio da una parte ha bisogno di essere incarnata per entrare in contatto con noi, e tuttavia necessita di essere purificata da avvelenamenti troppo umani.
Lo strano miracolo dalla pentola risanata (2 Re 4, 38-41) ci testimonia l’ironia che i tempi impongono anche ad una figura militante come quella di un profeta il cui linguaggio è normalmente quello della radicalità e del giudizio. In certi tempi anche la parola profetica deve «correggere il tiro» per non lasciare a pancia vuota l’umanità affamata. Miracolo diventa allora la semplice arte culinaria capace di «rimediare» una minestra uscita male. Ecco la storia: tempo di carestia, questa volta non solo reale, ma anche spirituale. «La parola dell’Eterno era rara a quei tempi e le visioni non erano frequenti» (1 Sam. 3,1). Come si fa a cucinare e a sfamarsi adeguatamente? Il profeta Eliseo ordina ai suo discepoli riuniti di preparare una minestra, minestra che deve nutrire tanti, anche coloro che non hanno contribuito. Con quali ingredienti però? Perché il profeta non li fornisce? Chi li deve procurare? Il cibo scarseggia. Per cucinare la minestra di Dio i discepoli agiscono in maniera diversa. Alcuni aspettano che vengano loro consegnati gli ingredienti, scelgono una vita più contemplativa; altri sentono di dover uscire a cercare personalmente le erbe. Uscendo affrontano una realtà «selvatica», sconosciuta, non catalogabile, come tutte le nuove situazioni che interpellano la nostra vita. In un nuovo contesto il rischio di sbagliare è sempre alle porte come succede a quel discepolo che, trovandosi di fronte una pianta selvatica, non addomesticata, con frutti abbondanti, se ne riempie il vestito per la minestra. E’ il rischio di chi nella vita non gioca in difesa e percorre piste sconosciute, alla ricerca di senso. E il frutto sconosciuto sembra bello e appetitoso, sembra aprire nuove possibilità di nutrimento. Viene portato a casa, tagliato e gettato nella minestra. Si rivela invece, alla cottura, tossico e capace di avvelenare il tutto. La minestra viene distribuita, ma è immangiabile: «C’è la morte in questa minestra». Ecco che il cibo che doveva nutrire, dare forza, vita, si trasforma in veleno, morte… Ironia della sorte, il discepolo che voleva contribuire col suo servizio al bene comune si scopre avvelenatore. Non resta che buttare via tutto il contenuto della pentola e rimanere a digiuno. Ma in tempi di carestia lo spreco non è permesso. Il profeta allora interviene.
Egli non moltiplica o trasforma, bensì corregge: aggiungendo un ingrediente trasforma quel veleno in cibo appetitoso che nutre. Il lavoro di tutti non va perciò sprecato.
La Parola di Dio risulta a volte cruda, indigesta e deve essere cotta perché sia resa appetibile per nutrire la nostra realtà, perché si trasforma in minestra che può essere distribuita e mangiata da molti. Ma il fuoco della passione non sempre è acceso e gli ingredienti giusti scarseggiano. Vorremmo trovare nuovi linguaggi, nuovi ingredienti per cuocere la Parola, nuove ricette, ma abbiamo paura, paura di essere il discepolo che, avventurandosi per sentieri sconosciuti, trasforma la Parola di vita ricevuta in minestra di morte, e allora ci sentiamo paralizzati. Meglio morire di fame che rischiare l’avvelenamento. E se troviamo il coraggio di agire subentra il timore di non essere capaci di discernere il risultato, di non riconoscere come i discepoli di Eliseo che la minestra di vita può diventare veleno. Carestia di Parola, di passione, di coraggio e di discernimento. Tempi difficili, non va negato. Forse però la morsa della fame ci rende disponibili ad apprezzare anche solo le briciole della parola di Dio e a non gettare via troppo frettolosamente quei piatti che ci sembrano riusciti male, nella speranza che Dio susciti tra noi i profeti ironici, capaci di correggere le nostre minestre sbagliate.