Come si dialoga con chi bombarda? Con chi ha deciso che non esisti?
Giovanni Scarafile AVVENIRE mercoledì 24 settembre 2025
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/resistere-con-la-parola
Il dialogo tra le parti in conflitto è spesso impossibile, almeno nell’immediato. Ma il dialogo di cui abbiamo bisogno è una realtà controfattuale. Un atto di resistenza contro la logica dominante
Ci sono momenti in cui il linguaggio stesso sembra spezzarsi. Davanti alle immagini di bambini estratti dalle macerie, di città ridotte a scheletri di cemento, di vite cancellate con la freddezza di una statistica, scopriamo che le parole che abbiamo usato per secoli – tragedia, orrore, barbarie – sono diventate gusci vuoti. Le abbiamo consumate a forza di ripeterle, fino a svuotarle di significato. È la trappola più crudele: nel momento in cui avremmo più bisogno di nominare il male per resistergli, ci accorgiamo che il nostro vocabolario è esausto. “Genocidio” diventa un hashtag. “Crimine contro l’umanità” una formula burocratica. Persino “Mai più” suona come una promessa già tradita troppe volte. Albert Camus, nel suo profetico discorso Il tempo degli assassini del 1949, aveva identificato con precisione chirurgica questa deriva: «Per guarire l’Europa, per servire l’avvenire del mondo, dobbiamo provvisoriamente contrapporre alla morale dell’assassinio questa morale del dialogo». La morale dell’assassinio non è solo uccidere, ma credere che il silenzio imposto con la forza sia più forte della parola, che l’altro sia eliminabile, che la violenza sia l’unica grammatica possibile.
Ma cosa significa scegliere il dialogo quando l’interlocutore bombarda ospedali? Come si dialoga con chi ha già deciso che non esisti? Qui sta il paradosso straziante: il dialogo di cui abbiamo bisogno non è quello che avviene tra le parti in conflitto – quello è spesso impossibile, almeno nell’immediato. È piuttosto una realtà controfattuale, un atto di resistenza contro la logica dominante. Dialogare significa affermare che esiste un mondo possibile dove la parola vale più del proiettile, anche quando tutto dimostra il contrario.
La testimonianza diventa allora la forma più radicale di questo dialogo impossibile. Chi testimonia non si rivolge all’assassino – sarebbe inutile – ma a un terzo invisibile: la coscienza collettiva, le generazioni future, quella parte di umanità che ancora può scegliere. Il testimone dice: «Questo sta accadendo, io l’ho visto, e con il mio racconto impedisco che diventi solo statistica». Non è un dialogo con il carnefice ma nonostante il carnefice.
Ogni testimonianza autentica crea una crepa nella morale dell’assassinio. Il medico che documenta le ferite che cura, il maestro che continua a insegnare sotto le bombe, il giornalista che raccoglie nomi invece che numeri – tutti affermano implicitamente che esiste un’altra logica. Non cambiano la realtà immediata, ma mantengono aperto lo spazio per un futuro diverso. C’è qualcosa di tragicamente eroico in questo. Scegliere il dialogo quando domina la forza è come piantare semi in un campo bruciato. Non sai se cresceranno, ma l’atto stesso di piantarli è una dichiarazione: questo campo tornerà fertile, anche se non sarò io a vedere il raccolto. È un atto di fede laica nell’umano.
Il dialogo come realtà controfattuale non è quindi ingenuità politica. È strategia di lungo termine. Mentre la morale dell’assassinio produce solo deserti – fisici e morali – la morale del dialogo conserva la possibilità della ricostruzione. Anche un dialogo muto, fatto di sguardi attraverso le macerie, vale più di mille proclami di vittoria.
E così scopriamo che testimoniare è già dialogare: con chi verrà dopo, con chi in altre parti del mondo sta affrontando lo stesso orrore, con quella parte di noi stessi che rischia di arrendersi al cinismo. È un dialogo che non aspetta risposta immediata ma che, ostinatamente, continua a porre domande. Perché finché c’è qualcuno che domanda «come è potuto accadere?», la morale dell’assassinio non ha vinto del tutto. In questo spazio sottile, fragilissimo eppure indistruttibile, si gioca la partita della nostra umanità.
Giovanni Scarafile


