Provo ad esaminare la mia giornata, quali sono i miei orari, i miei appuntamenti fissi, gli impegni inderogabili e le mie pigre infedeltà. In questa pagina dell’evangelista Marco sembra che il Dio eterno e senza tempo si sia incarnato anche nel nostro orologio, nei cicli orari. Le ore scandiscono anche la sua giornata fatta di mattini, sere, notti, ore.
Liturgia
Abituati ai molti programmi televisivi parolai, alle chiacchiere dei politici e ai sermoni dei preti, alle parole date e non mantenute, siamo da un lato perplessi e dall’altro affascinati quando incontriamo qualcuno che dice e fa, che ci colpisce con una parola chirurgica che taglia e cuce, libera e guarisce, dice “ti amo” e tu cambi vita
Sono esausto e senza evidenti conversioni da narrare: nessuna caduta da cavallo, nessun tavolo delle imposte abbandonato lì, nessun albero di sicomoro su cui abbia lasciato brandelli di braghe per la curiosità di vedere Gesù, nessun pozzo di Sichar che mi abbia fatto centro nel cuore, nessuna barca o rete abbandonata, nessun tesoro trovato per cui sia valsa la pena vendere tutto per comprare quel campo.
La parola di Dio passa dal sacerdozio al profetismo, come una parola nuova e libera di Dio, più legata alla giustizia o ingiustizia nei confronti dei poveri che agli intrallazzi tra tempio e reggia.
È difficile liberarci da accessori leggendari di questa festa per entrare nell’omelia dell’evangelista. La leggenda coccola gli appetiti fantastici, la profezia li turba.
Nella prima lettura è Dio che benedice l’uomo. Nella seconda lettura è l’uomo che benedice Dio, gridando a Lui: “Abbà!”. Nel Vangelo sono i pastori che, tornando da Betlemme benedicono Dio per tutto ciò che hanno visto e udito. A capodanno chiediamo a Dio la sua benedizione, in modo speciale.
C’è qualcosa di Dio in ogni uomo, ci sono un po’ di santità e molta luce in ogni vita. L’incarnazione non è finita, Dio «accade» ancora nella carne della vita, accade nella concretezza dei miei gesti, abita i miei occhi perché sappiano guardare con bontà e con profondità. Abita le mie parole perché abbiano luce. Abita le mie mani perché si aprano a dare pace, ad asciugare lacrime, a spezzare ingiustizie. E se tu devi piangere, anche lui imparerà a piangere; e se tu devi morire, anche lui conoscerà la morte.
Di chi e di cosa meravigliarsi in questa liturgia? Dove il Signore “ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”? Chi fra noi sente la coscienza personale di essere “consacrato” per essere voce di una Parola, sandalo di un Messia, dito di una direzione?
Non amo una chiesa lagnosa che piange sul proprio ombelico purulento né quella che gufa su problemi e moralizza su disgrazie, tuona da pulpiti su cuori già devastati e gambe infiacchite e piedi sanguinanti. Preferisco i profeti che danno il buongiorno all’aurora , anche se, come il gallo di Pietro, mi ricordano il mio tradimento notturno.
Oggi c’è chi nutre ancora attese significative di giustizia e santità ma, a causa della dilazione e dei ritardi, rischia di entrare nella massa di chi non attende più nulla. E mi scopro fra questi.